Ballare sul vulcano: si può fare, a Opera Festival

polpetta
Tempo di lettura: 7' min
26 August 2022
News, Review 4 U
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Bollente come la lava, fertile come il terreno su cui la cenere si è posata e poi raffreddata: Opera è un Festival che assomiglia a questi elementi.

5 giorni trascorsi a Milo, alle pendici dell’Etna: non sarà un racconto breve e non possiamo promettere che sarà ordinato, perché grande è la quantità di stimoli, ricordi, profumi che si mescolano al termine di questa avventura.

La seconda edizione di Opera Festival, la prima per noi di Polpetta Mag, è stata da mercoledì 17 a domenica 21 agosto; oltre 100 artisti da tutto il mondo, più di 5.000 presenze, tantissimi volontari e un mare di collaborazioni tra label, radio e record store, in uno sforzo collettivo, che è la prima delle peculiarità che a nostro avviso caratterizzano questo evento.

E poi 6 luoghi, ognuno a suo modo magico e capace di offrire esperienze singolari e difficilmente ripetibili altrove – a proposito di peculiarità.

Come ascoltare un concerto in acustico nell’assolato dopo pranzo di un giovedì, sotto l’Ilice di Carrinu, il leccio che qui, da 700 anni, veglia sul paese e si fa chiamare per nome. Non possiamo che rubare le parole intonate sotto la sua grande ombra da Marco Castello, artista che ha avuto il privilegio di suonare qui per questa edizione

Un sogno troppo troppo beddo

Uno dei momenti più emozionanti del Festival, che è appena all’inizio.

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Ilice Carrinu Opera Festival

Le abbiamo frequentate tutte e non è facile decidere quale delle venue di Opera Festival sia la nostra preferita.

La più istituzionale sulla carta è rappresentata dal teatro Lucio Dalla, se non fosse che lo staff di Opera ha trasformato la platea in una distesa di roccia lavica da attraversare per avvicinarsi agli artisti. Il palco, come un cratere, ha ribollito di luci ed energia per tre serate consecutive. 14 act per la maggior parte indimenticabili (alcuni forse vorremmo dimenticarli, ma provateci voi a togliervi dalla testa Discamore  dei Dov’è Liana se siete capaci).

E certo non basta un allestimento curato e originale a creare la magia.
La gig di apertura – la sorpresa di ascoltare Hollyspleef accompagnato alla chitarra da My friend Dario – è l’atteso live dopo la recente uscita di Garden live per Funclab records.

Poi il set si trasforma, gli Yin Yin attaccano. In meno di un minuto la band porta il pubblico giù dagli spalti per ammassarsi davanti a un palco dominato da un grande gong che scandisce il funk in salsa teryaki di questi musicisti che di olandese hanno solo il passaporto e i capelli biondi, per il resto sono pura energia. Figli dell’Asia che esplorano alla ricerca di suoni, hanno quell’eccellenza tecnica e quell’affiatamento cui, qui in Italia ci hanno abituati i Calibro35, se vogliamo stare sul genere. Ve li siete persi? Rosicate pure, era l’unica data italiana del tour.

Il viaggio in Oriente termina con Soichi Terada e la promessa mantenuta di un’ora di felicità assoluta: l’house music non è mai stata così sorridente, riuscendo a mantenere una matrice del tutto personale di atmosfera di sogno in technicolor, pur mixando nello stesso live set tracce come questa, questa o questa.

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Soichi Terada

La magia torna puntualmente il sabato sera, con la lucida e contagiosa follia di Mykki Blanco che, all’inizio del suo act, ci chiede di non pensare all’after party che sarebbe arrivato dopo e goderci il suo cabaret. E di cabaret socialmente impegnato potremmo parlare: tra un assolo e l’altro di sax, la nostra Lady Marmalade non si dà pace, scimmiotta Britney Spears e saltella fino alla cima degli spalti per tornare a ballare in mezzo al pubblico intonando “a far l’amore comincia tu”, quando solo pochi minuti prima ripeteva drammaticamente “White supremacy causes climate change”, confermandosi ancora una volta il performer capace di infonderti felicità, turbamento e dolore, un garbuglio di sensazioni che il cuore non sa sbrogliare.

Ma ancora molto altro è andato in scena su questo palco. È domenica e il gran finale è pieno di sorprese portate on stage da artiste che vogliamo ricordare una a una per averci fatto sognare, viaggiare, piangere e stare bene. Dalle atmosfere rarefatte e distopiche di Nziria, che, avvolta in una nebbia di fumo tagliata dai laser, fonde elettronica e neomelodico senza mai scadere in manierismi; al viaggio nel futuro post atomico in cui ci conduce Oklou, esploratrice gentile e bellissima, incantata di suonare alle pendici di un vulcano la sua musica, nata proprio come un viaggio di rinascita in cui gli elementi fuoco e terra giocano un ruolo protagonista.

Come bellissima e armata fino ai denti per difendere tutto ciò che ha (l’indipendenza della sua terra) è Alina Pash, artista originaria di un villaggio sui monti Carpazi che unisce nei suoi brani rap e pop influenze tradizionali e folk. Porta sul palco la bandiera giallo azzurra e ci avverte che cercherà di farci capire cosa sta succedendo in Ucraina attraverso la sua musica, mentre frasi come “la Piazza Rossa è rossa perchè piena di sangue” scorrono su uno sfondo rosso alle sue spalle.
Non crediamo che violenze come quelle che la Russia sta infliggendo al popolo ucraino si possano realmente comprendere ma, Alina Pash, con la sua presenza scenica, i suoi sguardi intensi e le sue bamboline woodoo in una cosa è riuscita perfettamente: scuoterci, lasciarci ammutoliti e devastati.

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Dopo questo pugno nello stomaco è difficile compito di Louise Chen chiudere le danze, riportarci sulla dance floor per salutare questa edizione di Opera. Ci riesce benissimo, il suo marchio di fabbrica sono pezzi house cantati che si susseguono fino a questo monumento dell’elettronica anni ’90 su cui si chiude il sipario. Le persone, su invito di Andrea Cavallaro, direttore artistico del festival, si radunano tutte attorno alla console e, come già la sera prima con il dj set di Brain de Palma (una metà degli Stump Valley) è subito Boiler Room, con l’unica fondamentale differenza: non ci sono telecamere, a nessuno sembra interessato mostrarsi a un obiettivo, il clima è quello di una festa tra vecchi amici e si balla scambiandosi sorrisi stanchi, tra drink lasciati a metà sulla console, ginocchia spappolate e cuori riconoscenti.

Ma siamo corsi all’ultimo giorno senza aver toccato gli altri luoghi del Festival che non possiamo tralasciare, perché – anche se non siamo stati tra quelli bravi a svegliarsi in piena notte per giungere all’incredibile live di Cucina povera all’alba tra i vigneti (abbiamo raccolto belle testimonianze e immagini incredibili) – ci siamo goduti tanti dj set allo stage Ballroom, allestito con specchi magici, accanto all’area dedicata al campeggio. Questa radura è raggiungibile in 15 minuti a piedi dal centro di Milo, o con un servizio navetta sempre attivo, messo a disposizione dal festival; qui Paula Tape, Blatta, Dj Rou, Jossy Mitsu, Fluidae collective e Castigamatti – tra gli altri – ci hanno fatti ballare a piedi scalzi sulla terra nera, all’ombra fresca del bosco.

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E poi c’è il centro di Milo che ha visto alternarsi 16 dj set mattutini nel Radio stage – un passaggio obbligato per nutrirsi al PutìaLab e poi godersi i la musica tra un’arancina e una pizza fritta, in compagnia delle signore affacciate ai balconi – e 6 act nella piazza, resa accogliente da un allestimento di tappeti e cuscini e calici di vino chilometro zero.

Qui tra un dj set e un concerto (tra gli altri hanno messo i dischi qui Nicolò Matteucci, Keep Vynil Alive, Marco Buscema, e suonato live gli Addict Ameba che ancora dobbiamo capacitarsi come siano riusciti a stare in 10 sul palco, con percussioni, batteria, fiati, tastiere e chitarre) accadono quelle cose meravigliose che ti aspetti da un piccolo paese della provincia catanese. Il prete esce dalla chiesa, interrompendo il sound check: questo frastuono non va bene, il concerto va posticipato, alle 19 inizia la messa. Il sindaco che si stava godendo la musica tra il pubblico si fa avanti e spiega che è tutto in regola e la festa deve continuare. Ci si scambia un segno di pace e tutto torna a fluire.

Milo è così piccina che, per forza di cose, una parte del festival si trova a occupare gli spazi della vita sociale della comunità, è una cosa che capiamo subito, quando il giovedì sera arriviamo davanti alla console allestita nel bel mezzo dei giardinetti pubblici, tutta per la balotta bolognese: Dj Rou, Jimbo e Naska, oltre ad aver collaborato all’organizzazione del Festival sono i protagonisti di questa serata. Balliamo dal tramonto all’una di notte davanti all’alternarsi dei loro dischi, un viaggio in un caleidoscopio in cui i ragazzi mescolano diverse influenze, dalla disco dei primi anni ’90 con frequenti tappe alle Baleari e dischi freschi di uscita, senza mai perdere il flow e il senso di connessione. La stessa che poi ci accorgiamo permeare tutti i luoghi del festival e le vie di questo paese: poco più di 1000 abitanti che sembrano aver accettato di buon grado l’arrivo di noi forestieri. Ci salutano, ci danno un passaggio quando ci incontrano a piedi su una strada in salita; ci sentiamo accolti.

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Abbiamo lasciato per ultima la venue che più di tutte ci è rimasta nel cuore: Punto Base Opera. Qui per due notti di fila si è ripetuta la magia: i battiti profondi della notte diffusi dal sound system dello stage progettato da Funclab Records nell’aia di un casolare di campagna, tutt’attorno solo filari di vigneti, un paesaggio che toglie il fiato, lentamente illuminato dalla luce rosa dell’alba.

La prima notte la console ha ospitato i dj set di La Bek (voi davanti alla console potreste non aver notato la sua t-shirt, l’abbiamo fotografata, la trovate nella gallery qui sotto), Roza Terenzi e il live di Reptant, da Melbourne con un bagaglio di dischi dai battiti veloci, suoni acidi, bassi electro e note sci-fi, forse la volta che abbiamo ballato con più trasporto. La seconda è stata la notte di Bosconi Records, con Giammarco Orsini e il fondatore Fabio Della Torre, in apertura Ayce Bio di Funclab: nessuna sbavatura, la musica ha accompagnato i più stoici lungo tutta la notte e ben oltre il sorgere del sole e non avrebbero voluto che finisse mai.

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E invece anche Opera Festival è finito, ce ne rendiamo conto il lunedì, aspettando l’autobus per Catania sotto una pioggia torrenziale.

Ripresi dal down che spesso accompagna la fine di un festival, tirando le somme potremmo concludere che, se vi piace la natura, ballare alla luce del sole, camminare in salita, rifugiarvi al riparo dalla coolness di certi ambienti, se siete in cerca di nuove amicizie e nuove frontiere di musica elettronica da attraversare, non dovreste assolutamente perdervi la prossima edizione di Opera Festival.

No, non fa per voi se non vi bastano 3 ore di sonno a notte, se non digerite il fritto, se non accettate passaggi dagli sconosciuti e se cercate la situa in cui sfoggiare outfit troppo pazzeschi. O se siete dalla parte del prete.

Testo: Elena Bertelli
Foto: Riccardo Giori

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