Nos Primavera Sound // 7-8-9-10 Giugno 2017

sergio-creep
Tempo di lettura: 10' min
20 June 2017
Festival, Review 4 U

Per il primo anno, dopo essere stati già incuriositi in passato dalle doti attrattive del Portogallo, miste alle strabilianti line up del Primavera Sound di Barcellona, abbiamo deciso di mettere insieme le due cose facendo visita all’omonimo festival che rende “Oporto” una città nuova nel periodo che intercorre fra il primo e il secondo week end di Giugno.

Prima di addentrarci nello specifico del festival, possiamo mettere a fuoco alcune fra quelle doti di cui si accennava in precedenza:

Il cibo è una bomba (consiglio ovviamente di provare le “Francesinhas”, o il “Bacalhau” e di fare un giro nelle cantine di vino “Porto” ed esattamente nella Taylor’s e nella Ferreira;
Il clima è umido, ma costantemente ventilato e capita raramente di trovarsi in giro con il cielo coperto: tranne quando fai after e vai in spiaggia ad imitare le mosse dei surfer, facendoti incantare dall’intenso fragore delle onde sul tuo scoglio di fiducia.

Avvolto dalla “nebbia atlantica”.
L’accoglienza è un “must” qui, e il portoghese medio ci tiene a rimarcarlo attraverso il meglio che la loro terra e l’umiltà possano offrire.

Ma oltre a questo ci sono tante altre piccole cose che sarà un piacere scoprire da soli, ve lo assicuro.
Chiusa la piccola parentesi turistico-motivazionale possiamo ora dedicarci alla intensissima 3 giorni di Primavera Sound, allungata magicamente dal party del Mercoledì dedicato ai possessori del ticket “all inclusive”.
Atterrati cerchiamo immediatamente una Super Bock, la birra “made in Portugal” come simbolo di pace, del patriottismo (non nostro, ma comunque ben accetto se moderato come qui) e della valorizzazione territoriale.

Una volta depositati i bagagli partiamo verso i poli studenteschi della città, imbattendoci in un mercato coperto di cui avevo già letto la storia e ne ricordavo alcuni dettagli, tra cui la completa disconnessione fra il motivo per cui fu costruito ed il suo utilizzo.
Al suo interno troviamo l’Hard club (“Parque do Infante”, nello stabile rosso locato sopra la Polizia) ed una esplosiva performance di Jessy Lanza: cantautrice e produttrice Canadese di musica elettronica proveniente dal pianeta “Hyperdub”, di cui ne rappresenta l’essenza attraverso partiture ritmiche eccellenti, ricche di estro ed imprevedibilità, mentre le urla orgasmiche ci fanno leggermente uscire dal tracciato rendendo il live molto sexy e accattivante.

Fallisce così il tentativo di uscire indenni dalla prima notte a Porto.

Dopo aver ritardato la sveglia X volte, resuscitiamo e corriamo a scoprire il Parque da Cidade completamente rinnovato per l’occasione.

Siamo al primo giorno ufficiale del festival, Giovedì.

Veniamo accolti da 23 gradi, leggera brezza marina e il melancholic dream pop dei Cigarette After Sex che alle 18 ci offrono la possibilità di entrare nel mood adatto per affrontare una giornata abbastanza varia (musicalmente parlando).

Tanto romanticismo e qualità nella suddetta band, tanto che saranno i primi ad esibirsi e a farci avere un idea di quanto possa essere gradevole l’arena naturale del NOS Stage colma di gente.
Ma andiamo a vedere come sono stati organizzati gli spazi all’interno del festival:

ingressi lampo e corridoi a serpentina dettano legge alle porte, dove tanta sorveglianza e polizia non vietano la possibilità ad ognuno di noi di fare ciò che si vuole, a patto che si rispetti la serenità altrui;

Appena entrati ci si trova in mezzo ad un parcheggio allestito a mò di fiera, con numerosi stand culinari e servizi di varia natura.

Guardando sulla sinistra possiamo notare il Pitchfork Stage attualmente chiuso, mentre se superiamo la linea di orizzonte dinnanzi a noi ci rendiamo conto di discendere il versante della collina rivolto al “NOS Stage”; Alla sua sinistra la dorsale prosegue, creando un enorme arena tagliata in due solo dalle file di alberi che definiranno il confine con il “BOCK Stage”, esattamente dove ci siamo piazzati ora a degustarci le nostre birre; Uno stand dove regalano fiori; Un altra sezione dedicata al cibo e all’abbigliamento ci accompagna nel percorso fino all’ultimo palco denominato “.”.

Come potete ben capire non stiamo parlando di un evento piccolo, tantomeno semplice da gestire, anche se a primo impatto ci proietta in un mood sereno e “open minded”, quindi alziamo le antenne e come i ricevitori della nasa siamo pronti a captare qualsiasi stimolo positivo che questa bellissima atmosfera abbia da presentarci.

Dicevamo che stavamo bevendo una buona birra al Bock Stage, quando ad un certo punto Rodrigo Leao e Scott Matthew cominciano a mixare le influenze produttive del compositore e chitarrista locale con buone interpretazioni dark pop (voce e chitarra) di Scott.

Fra qualche cover e assoli che richiamano la tradizione del “fado” portoghese, i primi nodi emotivi sono stati sciolti e il sole va via via nascondendosi dietro la nostra spalla destra, richiamando la nostra attenzione in direzione di un bellissimo stand di vini che (spoiler) domani scalderà i nostri animi.

Lo abbiamo già deciso.

Andiamo dunque verso la prima esibizione che personalmente posso indicarvi come una fra le mie preferite.

Dalla Scozia arriva un duo riunitosi grazie al ventesimo anniversario della band, nonostante fossero ormai da diversi anni lontani dai palchi.
Gli Arab Strap sono composti dal frontman (voce e laptop) che non ha nulla da invidiare (per estetica e tasso alcolico nel sangue) al mio oste di fiducia.

Insieme a lui: chitarra, violino, basso, batteria e tastiera.

In quanto amante delle voci imperfette e dei testi parlati piuttosto che cantati posso confermare di essermi goduto uno show esaustivo al 100%, soprattutto quando le basi elettroniche sono emerse in maniera tutt’altro che anonima in mezzo al tappeto strumentale tendente al folk.
Nonostante durante il live siano state abbattute circa 10 innocenti birre (solo dal cantante), nessun comitato a favore della protezione del luppolo è riuscito ad interrompere l’incalzante show.

Sempre più carico.

Cade il microfono 2 volte.

Ora tira fuori una lettera e con un sottofondo strappalacrime si cattura l’ultimo applauso del pubblico grato di tutto ciò.

Sono le 22.

Arriva il buio quindi tutti gli spettacoli che prevedevano l’utilizzo di particolari sistemi di illuminazione (piuttosto che di proiezione) si apprestano a cominciare.
Seguiamo l’alternarsi dei palchi e la folla che va verso il NOS Stage, dove i Run The Jewels hanno caricato l’arena in maniera inaudita.
Anche se non sono particolarmente affezionato all’hip hop così vicino all’elettronica, l’energia del duo statunitense attivo da non prima del 2013 è stata paragonabile a quella di un fiume in piena.
Non è stata fatta economia sull’ironia, diventata in poco tempo l’elemento di spicco dello show, insieme ovviamente al lavoro magistrale del dj che ai piatti ha letteralmente fatto ciò che voleva grazie alle proprie capacità tecniche.
Il sontuoso feeling fra il grande numero di fans in Porto e gli artisti ha reso l’esibizione unica.

Tanto che El-P e Killer Mike si sono sbilanciati, fra un pezzo e un altro, in personalissimi pareri riguardanti la stato attuale delle cose in ambito sociale (confermati ovviamente dai testi e dai videoclip) verso messaggi di apertura e tolleranza, con motivazioni volte anche a temi ambientali e ad una profondissima dedica ai più giovani rappresentati, giustamente, come il fulcro del movimento e della crescita del mondo che ci appresteremo ad incontrare nel prossimo futuro.

Dire che sia stato un live politico è poco.

Quanto è poco dire che sia stato solo “bello”.

Fra una lacrimuccia e due salti dobbiamo tornare al Bock.
Flying Lotus porta in scena il suo live.

Ormai è noto poiché riproposto ancora nello stesso stile, ma anche oggi incisivo come pochi grazie a molteplici fattori.

Ad esempio la predisposizione del palco, come la profonda interazione fra quest’ultima e la piacevole aritmia che rimarca la libertà ritmica che Steven Ellison vanta di governare.

Telo semitrasparente davanti a se, come anche quello posizionato alle sue spalle, connessi da fluidi giochi di luci che fanno della consolle un elemento integrante dello spettacolo audiovisivo.

Perché costruirsi una consolle con forme spaziali tipo astronavi, quando puoi farla diventare una farfalla, una nuvola o addirittura un drago, solo con l’ausilio delle proiezioni?
Steven ce lo spiega in pochi semplici passi.

Intorno la fine del live set è stata presentata inoltre una nuova traccia che uscirà, se abbiamo capito bene, in un EP programmato per il prossimo mese ma di cui purtroppo non siamo più riusciti a raggiungere ulteriori info.

(gossip time: l’artista in oggetto è, fra le altre cose, pronipote della coppia Alice McLeod-John Coltrane)

Adesso la luna è alta e l’ultimo show della serata sta per avere inizio.

Le americane cominciano a ridisegnare la struttura dietro gli ultimi artisti in gioco questa notte, predisponendo il palco ad uno show di luci letteralmente stratosferico ed in continuo movimento.

Con i Justice sapevamo che non avremmo sbagliato.

Infatti il pubblico ce ne ha dato la prova seguendo con particolare spinta i passi del duo che da una decina di anni ha riscritto le leggi del synth pop elettronico, animandolo con riferimenti chiaramente riconducibili alla “french touch” da cui attingono per la scelta dei suoni.

Anche l’acid pop di 20-30 anni fa viene chiaramente chiamata in causa.

Ora che abbiamo un idea di come potrebbero svilupparsi le giornate all’interno del Parque da Cidade (anche se i palchi utilizzati sono solo la metà di quelli disponibili), possiamo già pensare a come pianificare il nostro Venerdì.

Il mal di testa post sbornia da birra ci fa ripiegare sullo stand di cui vi parlavo in precedenza, dove un ottima selezione di vini locali viene servita in calici di vetro, lasciando a noi l’onore di vivere l’euforia del festival, con la delicatezza dei sommelier.

Uno spettacolo.

E forse, grazie anche a tutte queste uve, oggi voliamo agilmente di qua e di là fra tutti e 4 i palchi.

Fra le esibizioni di cui vogliamo dirvi qualcosa di più non possiamo assolutamente evitare: gli Sleaford Mods, il duo inglese voce e laptop che inaugura la performance eseguendo cori dal significato abbastanza eloquente: “England prrr. England prrr. England prrr(pernacchia).

Il loro punk rock è molto aggressivo e ricco di energia.

Il country e il Folk-rock caratterizzano il Pitchfork Stage nella parte iniziale della serata: rispettivamente con Nikky Lane e Julien Baker.

Passiamo così dal nostro fedelissimo spacciatore di alcolici, prima di sentire quello che il nostro umore in realtà non stavo chiedendo.

Siamo usciti soddisfatti anche dalla performance di Bon Iver, anche grazie a fatto che qualitativamente non credo abbia eguali nel suo genere.

Inizialmente cattura l’attenzione a seguito della vittoria di 2 Grammy awards.

Questi riconoscono Justin Vernon & band come il miglior artista e premiano il suo “Bon Iver, Bon Iver” come miglior album di musica alternativa nel 2012.

Gli si spalancano le porte del mondo, piattaforma su cui diffonderà perle dalla dolcezza unica; Cavalcando le ali della sua crescita artistica e della modulazione vocale introdotta anche da lui, in punta di piedi, nell’ Indie-Folk.

Settore di cui ha modellato i connotati in tutta l’ultima decade.
Per capire il suo percorso non sono da trascurare le collaborazioni con James Blake e Kanye West, 2 con cui è meglio evitare di parlare di hype o ricerca di talenti.

In questi rami temo abbiano il predominio assoluto.

Lo si nota quando passiamo nel Super Bock per ascoltare Skepta.

Un altro genio assoluto: per stile e capacità tecniche, cosa già notata in precedenza da Kanye (appunto) il quale gli chiederà un feat.

E quindi dalla delicatezza di Bon Iver, passiamo al Grime in stile “Meridian Crew”.

“Ma il vino è ancora forte in noi”.

Direbbe Joda, se solo potesse assisterci.

Continuiamo senza sosta la nostra corsa verso il piacere.

Raggiungiamo un altissimo livello quando nel palco “.” arrivano i King Gizzard & the Lizard Wizard. Australiani, tantissimi sul palco e tremendamente coinvolgenti.

Sono fenomeni di produttività: hanno inciso 11 dischi dal 2012 al 2017, di cui 3 solo nell’ultimo anno.
La loro promessa ai fan narrava di almeno 5 prima di Dicembre.

(Ma poi, per me, uno che esce con un album intitolato “Flying microtonal banana” ha già vinto tutto.)

E mentre saltelliamo felici verso il NOS Stage, sentiamo Nicolas Jaar che inizia a tessere una fitta trama di suoni elettronici e strumenti a corde o campanelline dal suono molto caldo (purtroppo non riesco a definire tecnicamente ciò che permette ai sud americani di avere questo tocco delicato, sensuale e allo stesso tempo aggressivo, però loro sono bravi ad esplicare quello che intendo io come “calore”, sotto forma di groove che non lasciano scampo).

E quindi dal noise con cui si inizia, ci troviamo dopo una mezzoretta a muovere i tacchi, il culo, le spalle mentre teniamo gelosamente sott’occhio il wine corner.

Era tanto che volevo sentire Nicolas: è molto giovane ma tuttavia è già qualche anno che integra nell’elettronica elementi inaspettatamente “deep” (soprattutto in contesti come questi e a velocità esorbitanti come i 135 bpm), riuscendo a mantenere: pulizia, ordine e compostezza.

Molto diverso rispetto quello che canticchiavo rimembrando i sottofondi dei suoi esordi.
Uno dei pochi artisti insomma, che invece di cercare nel disordine una nuova chiave di lettura, preferisce esplorare con lucidità tutto quello che le tradizioni e i suoni locali hanno da proporre, applicandoli sperimentalmente ai beat in 4 quarti.

La voce profonda sporcata dagli effetti non può far altro che dare una marcia in più al live del cileno.

Se poi si comincia a pensare che di lì a poco avremmo assistito anche all’esibizione live di Richie Hawtin, e a seguire il dj set di Mano Le Tough nel Pitchfork stage, potete immaginare come l’alba non sia mai stata così facile da raggiungere.

Filiamo via lisci fino al terzo ed ultimo giorno, il Sabato.

Gli Shellac alle 20:30 hanno dato noi il bienvenue.

Su di loro abbiamo speso già molte parole qui (http://www.polpettamag.com/nos-primavera-sound-porto-8910-giugno-2017-shellac-focus-on/).

L’inglese Sampha, subito dopo nel Bock Stage, è più o meno tutto.

Hip hop, soul, elettronico e oltretutto un ottimo strumentista.
Passa dalla tastiera alle percussioni con una semplicità disarmante.
Anche qui Kanye è passato a metterci lo zampino, collaborando con lui nella creazione del testo di “Timmy’s prayer”.

Allucinati dal punk noise cazzutissimo dei Death Grips, andiamo a sentirci i Metronomy nel NOS Stage: piacevole ma particolarmente tranquillo per noi.

Non vediamo altro che Aphex Twin.
Anche qui non è il caso di dilungarsi.

In questo approfondimento (http://www.polpettamag.com/nos-primavera-sound-porto-2017-speciale-aphex-twin/) potete trovare alcune informazioni essenziali per capire il soggetto in causa.

Per il resto, possiamo solo dire di aver atteso con tanta ansia uno spettacolo dal valore immenso.

Si può realmente definire “multisensoriale” poiché è chiaro come tutti i sensi vengano sfiorati.

Il lato emotivo quando il pubblico viene chiamato in causa nelle proiezioni, costituendo parte integrante di un’altra protesta.

Questa volta però nei confronti di chi non si rende parte attiva di questa società, sopperendo al potere di alcuni elementi che, in realtà, il potere non dovrebbero averlo.

Il lato cerebrale: grazie alle sue frequenze/noise/melodie analogiche, crea musica dove chiunque potrebbe pensare non possa esistere.

Fluttua liberamente fra tutti i generi, conosciuti e non, con un’aggressività via via ascendente.

Fino a sfiorare l’hard core più cattiva che io abbia mai sentito.

E’ stata 1 ora e mezza (forse 2, boh) di fuoco.

Solo i Tycho ci permetteranno di riprendere coscienza e tornare con i piedi per terra.

Dopo aver saltato e viaggiato con la mente, una nuvola soffice ci accompagna alla fine del festival.

Il trio californiano è molto intenso.

Suona pop malinconico e i Visual anche in questo caso sono eccezionali, con particolari riferimenti alla natura e alla ricerca in ambito fotografico.

Settore in cui il leader della band è particolarmente abile.

Ci siamo stesi sulla collina che spalleggia il Pitchfork, dove tutto sempre finisce.

Nei giorni precedenti, come in questo.

L’unica scintilla si sprigiona all’ Industria club, dove gli after con l’Italiano (di nascita) Bawrut, Patlac e Levon Vincent ci permettono di saltare il romanticismo dell’alba lungo tutto il NOS.

Che bel club!

L’ultimo bagliore di una tre giorni passata a gas aperto e dove incontri piacevoli e la musica di qualità non sono certamente mancati.

E’ stata senza alcun dubbio la più bella esplorazione musicale della nostra vita.

GALLERY BY LUCA ZAMAGNA / E R R A T A disain

 

 

 

 

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