# Trip Diary # Perdere l’ anima al Berghain

richard
Tempo di lettura: 4' min
8 January 2014
Review 4 U

Mi trovo ancora a bordo di un aereo che da Berlino mi sta riportando in Italia e già sto scrivendo, perchè alcune cose vanno messe subito nero su bianco quando l’adrenalina sta lentamente scemando lasciando spazio ad un hangover di proporzioni bibliche.

Siamo sinceri, se nutri una passione per la club culture, Berlino è una mecca capace di divorarti l’anima e risputarla una volta decollato verso casa.

Sono partito all’alba di venerdì con un gruppo di amici e la loro band, i Bahntier, prendendo due piccioni con una fava: dar loro supporto e tornare in quelli che reputo tra i migliori club europei.

Il mio trip nella notte berlinese ha inizio venerdì sera, vagabondando fuori dal nostro appartamento finiamo neanche troppo per caso al Row Tempel, un complesso underground di ex depositi e officine ferroviarie abbandonato dopo la caduta del muro e trasformato da associazioni culturali e gruppi di squatters in un gigantesco centro multiculturale comprensivo di atelier, gallerie d’arte, palestre, mercatini e club, una sorta di città nascosta nella città, mimetizzata da una coltre di graffiti e binari morti che non portano più da nessuna parte.

Spariamo a caso e proviamo ad entrare nel primo posto che troviamo, ma la tipa all’ingresso ci informa che dentro è in corso un live di musica sperimentale e che non bisogna fare troppo casino, un po’ come a teatro. Non fa per noi, perciò alziamo i tacchi e proviamo il club successivo di cui non ricordo il nome ma è un centro sociale all’avanguardia, con alcohol e birre di qualità ma non rimaniamo granchè, il tempo di qualche sigaretta, un paio di drink e usciamo del tutto dal Row.

Due isolati più a sud ci ritroviamo davanti al Watergate, per una volta non incontriamo troppa coda e decidiamo di entrare, a sorpresa ci aspetta un live di Smash Tv e al piano superiore un James Zabiela in grande spolvero, tant’è che divisi tra dancefloor e la vista mozzafiato di una Berlino all’alba sul fiume Spree, facciamo le sei senza rendercene conto, ma la consapevolezza di quello che ci aspetta il giorno successivo ci spinge al ritiro immediato.

 

Se siete amanti della techno e non avete mai sentito parlare del Berghain/Panorama Bar cospargetevi il capo di cenere e copritevi di vergogna. Descriverlo non è semplice se non ci si è stati almeno due volte, la prima ti disorienta, la seconda già vi aiuta a comprenderne le filosofia.

Dopo il concerto dei miei amici in una concert hall sotto la stazione metropolitana di Schlesisches tor, ce la prendiamo comoda e arriviamo davanti al Berghain intorno alle cinque del mattino per evitare le ore di coda costante nell’orario di punta che spazia da mezzanotte alle quattro; del resto come un vero tempio della musica apre alle 23:59 di venerdì notte per chiudere non stop alle 2 di lunedì.

 

Questa sera si festeggiano i nove anni del club nella sua attuale location, e il sol vedere da lontano questa ex centrale elettrica dai tratti architettonici sovietici incute timore e rispetto; il cuore inizia a battere e l’adrenalina sale.

Il fatto che riuscire ad entrarvi non sia mai una certezza da un’ idea della sua importanza.

Sven Marquardt è l’individuo demoniaco che sta all’ingresso, fa quel lavoro da vent’anni e come giudice e giuria è lui a selezionare chi è degno e chi no. Lasciate perdere quelle assurde “guide” che trovate su internet, non ci sono regole particolari per evitare di essere rimbalzati, magari solo alcuni accorgimenti utili, a volte solo fortuna perchè il Berghain non è un posto per tutti, tantomento da turisti, e avrete una sola possibilità. Impressionante come tutta la gente in coda fosse chiusa in un silenzio quasi religioso, ma dopo una mezzoretta passiamo la selezione ed entriamo. L’uomo del monte ha detto si. Cazzo se ha detto si! Passati i controlli e pagato il ticket (quattordici miseri euro più un euro di guardaroba) sentendoci ormai al sicuro ci abbandoniamo ad un abbraccio collettivo come se avessimo appena trovato il santo Graal.

E’ come entrare in un altra dimensione, tutti sono amici con tutti e la gente è ultra rilassata, sono lì per divertirsi e ascoltare musica da paura, non ci sono scazzi e i buttafuori anche se presenti li vedi a fatica, in Italia vendere bottiglie di vetro al bar di un locale a tre piani e pieno di balconate sarebbe istigazione all’omicidio. Nonostante la perenne coda all’ingresso, il locale non è mai murato di gente, è sempre pieno ma vivibilissimo, si va da un piano all’altro con facilità e l’atmosfera è surreale.

Il primo che sento suonare è subito un pezzo da novanta, Marcell Dettmann. Non serve aggiungere altro, sentirlo a casa sua e davanti alla sua gente è qualcosa di trascendentale, il suo set finisce tra appalusi e ovazione generale. Dopo di lui A&S (aka Dimi Angélis & Jeroen Search), non li avevo mai sentiti ma sono come una bomba a mano lanciata in chiesa nell’ora di messa, pure loro congedati con dieci minuti di applausi. Poi è la volta del live di Kangding Ray, ma da lì in poi la mia lucidità viene sempre meno finché perdo totalmente la cognizione dello spazio e del tempo uscendo circa undici ore dopo con la faccia al contrario come il figlio di Tom Tucker, particolare che noterò solo arrivato a casa grazie alla totale mancanza di specchi all’interno del locale (scelta strana ma, azzeccatissima). La sera stessa, vinti dalla stanchezza, non ce la facciamo a tornarci perciò perdiamo sia Ben Klock che John Talabot. Sarà per la prossima volta.

La conclusione è quella che tutti si aspettano: dormita di dodici ore e sveglia direttamente in aeroporto, con due occhiaie talmente profonde che rischiano quasi di non passare i controlli al gate.

E mentre dal finestrino dell’aereo guardo la città che lentamente si allontana mi domando come sarebbe finita se fossimo stati rimbalzati, ma ricado nel sonno prima di trovare una risposta. A presto Berlino, abbiamo ancora troppe cose da dirci.

Richard Giori

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