In quel Magnolia imballato di persone, in una fredda sera di novembre, eravamo tutti doppiamente eccitati per l’arrivo dei DIIV.
Durante l’opening act con Tim Kinsella e Jenny Pulse, noi due volte ansiosi. Prima di tutto perché sentire la band di Brooklyn dal vivo non è cosa facile per chi vive in Italia e poi perché, finalmente, hanno un nuovo disco con infinite chitarre da suonarci: Frog in boiling water.
Ha una lunga storia questo album, come racconta la casa discografica Fantasy Records, una gestazione di quattro anni, insinuandosi nelle vite di Smith, Cole, Baley e Neuman in modo avventuroso, ostico e intenso. Anni di isolamento, sperimentazioni alienanti ed estenuanti, per plasmare una sinfonia in 10 brani, che parla di fallimento del genere umano e dell’adagiarsi sul collasso della società.
Proprio come la rana che si lascia morire senza opporre resistenza, dentro una pentola di acqua la cui temperatura sale inesorabilmente fino a bollire – metafora tratta da The Story of B. di Daniel Quinn – sembra che i DIIV abbiano vissuto questo periodo analizzando questa forma di adattamento, traducendola nel canto delle loro chitarre, determinando il ritmo e la melodia di quell’abitudine all’orrore che le nostre vite stanno diventando.
Ed è forse questa abitudine che trasforma la paura in melancolia, in un abbandono che nonostante tutto ha qualcosa di dolce.
Trasformazione sembra essere una parola chiave: un’intelligenza artificiale dalla voce cristallina su uno sfondo di cielo azzurro e nuvolette, ci anticipa che non stiamo per assistere a un semplice concerto ma stiamo per compiere un viaggio di trasformazione, promettendoci che me usciremo come farfalle dopo una vita da bruchi. È solo il primo di diversi intermezzi conditi di stereotipi pubblicitari, finti messaggi motivazionali infarciti di greenwashing e biondi sogni americani.
La deriva capitalista senza ritorno condita con un po’ di humor. Ed ecco che l’intero concerto è un flow da cui ci lasciamo cullare. Una musica bellissima ci accompagna fino a dove sarà tutto finito.
In scaletta ci sono quasi tutti i brani del nuovo disco in una equilibrata alternanza con canzoni di Deceiver e Is the is are: il flow a tratti si fa incalzante, con spiragli di allegria sulle note di Under the Sun, che ci riporta all’indimenticabile concerto a chiudere la venticinquesima edizione di Ypsigrock, sotto le stelle di agosto.
Ma a riportarci nel dramma del presente, tra l’esecuzione di Blakenship e Acheron una bandiera a stelle e strisce sventola sul fondale, mentre la voce artificiale ripete in loop «Death to America». Immaginiamo la difficoltà di essere una band americana in tour in questo momento ed empatizziamo sempre più con Smith e compagni.
Siamo giunti alla fine: dopo un encore di due brani e molti cambi di chitarre, a dimostrazione che la perfezione può celarsi anche nelle pieghe di un mondo alla deriva, i DIIV ci salutano sulle note di Doused, dal primo disco Oshin, grande regalo agli shoegazer duri e puri.
In questo mercoledì sera di novembre al Magnolia si sta come la rana nell’acqua calda: incapaci di reagire alla vita, come ipnotizzati da infiniti echi celestiali di chitarre e, sì, se esistessero gli angeli avrebbero quel modo lì di cantare, come le chitarre dei DIIV.
Ph. Riccardo Giori, parole Elena Bertelli
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