Primavera Sound 2016 // 1-5 giugno 2016 • BARCELLONA

richard
Tempo di lettura: 7' min
9 June 2016
Festival, In primo piano
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Seduto al mio posto in aereo, guardo attraverso il doppio vetro del finestrino e vedo Barcellona. In realtà non sto atterrando, sono appena decollato ma se devo dire la verità nella mia testa non me ne sono mai andato.

Nella mente regna ancora il caos. Un turbinio di ricordi, di volti di urla e di musica. Mi giro e vedo il tizio seduto di fianco che mi guarda stranito, non capisce il mio stato d’animo ma del resto come potrebbe, se non si è stati al Primavera Sound 2016 è impossibile anche lontanamente immaginare come ci si possa sentire al ritorno da uno dei festival musicali migliori di sempre.
Quest’anno poi a maggior ragione, la line-up era perfetta e il sold out dei biglietti già nel mese di marzo (prima volta in quindici anni di festival) ne è la prova. Ricordo ancora il primo live come se lo avessi visto pochi minuti fa, gli svedesi Goat con i loro ritmi tribali, le loro maschere, quel voodoo musicale e quell’energia pazzesca. Dopo di loro il britpop leggendario degli Suede, se ci penso sento ancora l’eco delle note di Beautiful Ones, e questo solo nella prima giornata di concerti gratuiti al Parc del Forùm.
Pazzesco come la selezione degli artisti e la loro disposizione temporale siano riusciti a coprire tutti gusti e tutti i generi, dal rock all’elettronica, dall’ hip hop allo shoegaze, dal garage punk al kraut rock. La sveglia del secondo giorno suona relativamente presto, e all’una del pomeriggio siamo già al Beach Stage, dove sul palco del Bowers & Wilkins Sound System assistiamo ad una tripletta che lascia senza fiato: Floating Points (che si esibirà anche live la sera stessa sul palco Ray-Ban), Erol Alkan e Todd Terje, uno dopo l’altro.
E’ l’anno della disco e il loro sound modellato apposta per il day time riempie nel giro di poco tempo tutta l’area diventando impossibile anche solo avvicinarsi al tendone dello stage, la gente non smette un secondo di ballare e il mare non è mai stato così vicino, Todd Terje chiude poco dopo le cinque del pomeriggio con un remix di Inspector Norse accolto da un’ovazione generale. Divertenti anche il b2b tra Maceo Plex e Maars e i Simian Mobile Disco nei giorni seguenti, ma chi ha lasciato veramente il segno sono stati Koze al tramonto di venerdì e I-F nell’ultima notte, un eclettismo nei loro set ripagato a pieno dalla massiccia presenza di persone che non riuscivano a stare ferme un minuto.

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Per quanto riguarda i grandi palchi, la prima bomba deflagratami davanti agli occhi è stata il live degli AIR, immensi, così retrò e al contempo così attuali, vestiti di bianco davanti ad uno schermo di led luminosi, le hanno fatte tutte da Cherry Blossom Girl a Sexy Boy, passando per La femme d’argent ed infine la mia preferita, Playground Love, in una romanticissima versione strumentale.

Ma il tempo per riprendersi al Primavera è sempre molto limitato, poichè dopo aver tirato giusto il fiato viene l’ora dei Tame Impala.
Li aspettavo con ansia e dopo aver perso le loro date italiane decisi che niente e nessuno si sarebbe messo in mezzo tra me e loro sacrificando persino John Carpenter, e le aspettative sono state ripagate con uno dei live più belli, ballabili ed emozionanti a cui potessi mai assistere. Una spirale psichedelica in bilico tra rock ed elettronica nella quale la band di Kevin Parker ha eseguito quasi tutti i brani di Currents più alcuni tra i più famosi degli album precedenti. Purtroppo la loro esibizione viene interrotta da una lunga pausa (che scoprirò poi dovuta ad un guasto tecnico), memorabile comunque la pioggia di coriandoli colorati sulle note di Let It Happen.

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Giusto il tempo per un salto veloce all’area Pro da Jack Carty che arriva il turno degli LCD Sound System. E via di Daft Punk is playing at my house, I Can Change, Someone Great, New York I Love But You’re Bringing Me Down, le bombe vengono sganciate una dietro l’altra, ma la sensazione più bella è che non sembra di stare in una moltitudine di quarantamila persone ma in grande club, il sound è perfetto, la loro carica è palpabile, James Murphy sembra quasi stia suonando davanti ai suoi amici, e si diverte come un matto. Sono passati dieci anni dall’ultima volta che li vidi, ma il tempo per loro sembra essersi inspiegabilmente fermato, quando attaccano Dance Yrself Clean la gente esplode, e per molti è già il concerto della vita.
Il Venerdì arriva in men che non si dica, e l’affluenza di gente chiaramente in fotta per Thom Yorke & soci arriva più in fretta dell’acqua alta in piazza San Marco. Il punk di Titus Andronicus, i visual dei Cabaret Voltaire e l’attesissimo show di reunion dei londinesi LUSH sul placo dell’Heinek Hidden Stage aiutano a trascorrere un piacevolissimo e caldo pomeriggio spagnolo, ma l’esodo generale intorno alle nove e mezza mi costringe a seguire la massa e prendere posto prima del live dei Radiohead, che nonostante tutto finisco per vedere da lontano.

Iniziano alle dieci e un quarto e se devo dirla tutta, non ho mai visto così tanta gente (pare sulle circa cinquantamila) chiudersi in un religioso silenzio per quasi due ore di concerto, esplodendo soltanto in ovazioni e scrosci di applausi tra un pezzo e l’altro. Non sono mai stato un grande fan della band di Oxford, ma quello a cui ho assistito al Primavera non è stata una semplice esibizione ma una celebrazione, un rito magico se vogliamo, come sommi sacerdoti dinanzi ad una sconfinata platea di seguaci adoranti dopo l’aver evitato per anni i grandi festival. Persino i pezzi che non mi hanno mai colpito, dal vivo mi sono sembrati fenomenali, iniziando dal nuovo singolo Burn The Witch, eseguendo poi da scaletta i brani dell’ultimo album. Da metà concerto in poi inizia la follia, da The National Anthem a Karma Police, passando per un Idioteque più che onirica, No Surprises e Street Spirit. Ma è il finale che manda tutti in delirio perché dopo una pausa e altri cinque pezzi (tra i quali Paranoid Android ) ecco che arriva ciò che molti fan sognavano da anni, Creep.
Lo scazzo nel suonarla è percepibile, ma nonostante tutto la bellezza e la poesia di quella canzone sono talmente elevati che qualsiasi difetto passa in ultimo piano. Finisce così il live più atteso di tutto il festival, tra lacrime e abbracci di seguaci in totale delirio.

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Non si parlerà d’altro nelle ore a seguire, ma il festival non finisce con la loro esibizione, lo dimostra il pienone dagli Animal Collective, al Pitchfork Stage da EVIAN CHRIST e l’incredibile dj set nelle ultime due ore di Koze che suona all’alba davanti ad un mare calmo e limpido che sembra riflettere a pieno l’umore di chi ha vissuto questa intensa giornata. Da segnalare anche la scoperta di Kiasmos, duo islandese formato da due poli strumentisti provenienti da scene musicali che nulla hanno a che fare con l’alchimia tra ambient, pop  e techno del loro set.

L’ultimo giorno è scandito da un ping pong tra i palchi della Pro Day Area al CCCB e quelli del Parc del Forum, da una parte i tre italiani presenti, tra cui il synth pop di Matilde Davoli, le ritmiche rock incessanti di Altre di B (visti anche nell’area Pro Night del Parc del Forum) e infine i Sycamore Age, questi ultimi in particolare dopo qualche minuto di ritardo dovuto al soundcheck stregano i numerosi presenti in un crescendo emozionale di chitarre, grancasse, tastiere e violini, lasciando il palco tra gli applausi del pubblico, personalmente tra le migliori band viste al Primavera Pro di questa edizione.

Dalla parte dell’Heineken Stage invece l’attesa è tutta per Brian Wilson, e dopo una corsa contro il tempo dovuta alla marea di gente diretta al festival che intasa la metropolitana, arrivo giusto per l’inizio del leader dei Beach Boys. La zona si riempie in men che non si dica, quando sale sul palco insieme ad altri dieci musicisti gli applausi sono tutti per lui. Visibilmente emozionato dal volume di gente inizia come da copione con tutti i brani del capolavoro del 1966, Pet Sound, un disco che compie cinquant’anni ma che sembra scritto ieri, e sentire dal vivo pezzi come Wouldn’t It Be Nice e God Only Knows fa venire letteralmente la pelle d’oca. Ma i veri brividi di piacere arrivano alla fine dell’album, quando Wilson e soci attaccano con alcuni dei più grandi successi dei Beach Boys, ed è li che si tasta con mano la magia di brani immortali come California Girls e I Get Around facendo ballare chiunque, giovani, vecchi, persino i bambini venuti coi loro genitori, e la scena più bella alla quale potessi mai assistere è un ragazzino che sulle spalle del padre canta Surfin’ USA dall’inizio alla fine. Tra lacrime di gioia e sorrisi soddisfatti chiude con la classicissima Fun Fun Fun, congedandosi con un inchino ripagato da una standing ovation. Immenso.

Tuttavia l’ultima giornata di festival ha beneficiato anche di altri grandi artisti, come Pusha T e Action Bronson che nella loro splendida arroganza hanno messo sotto sopra Pitchfork e Primavera stage e creato un omogeneità di pubblico mai vista in precedenza. Peccato essermi perso invece PJ Harvey, a detta di tutti uno dei migliori live di sempre.
Successivamente è stato il turno dei Sigur Ros a mezzanotte in punto, seguiti a ruota dai Moderat nel palco di fronte e a chiudere infine questa edizione del Primavera Sound 2016 quella che per me è la rivelazione dell’anno, l’americano dj Richard. Con la sua borsa dei dischi si apre un varco spaziotemporale che ha trascina i numerosi presenti in un viaggio nell’iperspazio della techno, culminato con l’alba più rosea mai vista in terra catalana.

E con la luce del sole arriva la fine di questo festival, culminato con gli ultimi show tra Day Pro Area, Sala Teatre e Sala Apolo per chi ancora ha energie da spendere. Per chi invece ha dato tutto se stesso resta solo un ultimo tramonto da vedere tra una sangria e l’altra, fantasticando su quali saranno le sorprese dell’anno prossimo, consci del fatto che superare un’edizione come quella appena vissuta sarà un’impresa per niente facile.

 

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