Son Lux @ Circolo Magnolia – 12.02.18

gloria-soverini
Tempo di lettura: 2' min
14 February 2018
Review 4 U
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There’s only one first time

Mi segno questa frase alle 23:24 di ieri, lunedì: a pronunciarla è Ryan Lott, frontman dei Son Lux.
Lo so, ho iniziato a parlare di questo concerto dalla fine ma è importante.

La dice perché ci chiede di cantare con lui e di dare il massimo; non hanno mai fatto Dream State dal vivo (anche perché inaugurano il tour del nuovo album, Brighter Wounds proprio stasera a Milano), e there’s only one first time.
Quando Ryan dirige il pubblico, prima le ragazze e poi i ragazzi, l’atmosfera è indescrivibile, poi esplode la musica e il coro di persone è potentissimo; chi l’avrebbe mai detto che questo live sarebbe stato così intenso, continuo a ripetermi sperando che non finisca mai.

E pensare che Ryan al microfono ci comunica che il concerto era stato ad un passo dall’essere cancellato per problemi tecnici; una voce dal pubblico risponde “It’s Monday!”, tutti ridiamo e, dopo l’esorcismo delle difficoltà, possiamo continuare.

Nell’ora e mezza di live al Magnolia vengono toccati tutti gli album: non mancano Easy, Lost It to Trying e You Don’t Know Me, che è come dare uno schiaffo in faccia a qualcuno anche se resti comunque lì in piedi ad ascoltarla con le orecchie e lo stomaco.
Le canzoni di Brighter Wounds, sentite e viste live, sono qualcosa che non si riesce a dire.

Se al primo ascolto quest’ultimo lavoro mi era sembrato sì cupo e profondo, ma così tecnicamente importante da mettere un po’ in disparte le sensazioni che un gruppo del genere mi suscita ad ogni nota, dal vivo la sensibilità prende forza e si trasforma in un’onda che non lascia scampo. Quasi come affondare piano nelle sabbie mobili, ma senza paura.

Slowly, All Directions (che ha un ritornello che ti piega in due), Young, The Fool You Need e Forty Screams acquisiscono un’incredibile potenza fra i ritmi che solo un batterista come Ian Chang potrebbe sostenere in questo modo così elegante, pulito e al tempo stesso inesorabile – per non parlare della chitarra di Rafiq Bhatia, che trasforma l’elettronica di Ryan in una creatura bifronte tra il prog e il post-rock.

È su Aquatic, però, che mi spezzo definitivamente: Ryan canta evidentemente commosso, e lì ci ricordiamo che l’album nasce a metà tra un inizio e una fine.
L’inizio è la nuova esperienza come padre, la fine è quella della perdita di un caro amico a causa di un tumore:

How will we be in that waking?
How will we be in the womb?
We may all begin aquatic
But we leave only dust from our bones

In definitiva, un concerto dalla sensibilità acuta, così tanto che arriva a pungerti dentro; una performance che, se è vero che la prima volta è una sola, chissà come sarà la seconda.

Words and pics by Gloria Soverini

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