Tra Siria e Amburgo: Shkoon? Di come andare avanti

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Tempo di lettura: 4' min
16 April 2018
Arabesque
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Un altro titolo di questo articolo avrebbe potuto essere “Come ho trovato la Contessa di Pietrangeli in Siria cercando il Carpenter Brut arabo ad Amburgo, ”

Ero difatti perso come sempre nei meandri dell’internet quando per caso mi sono imbattuto in questo pezzo:  Build Your Castle, del trio house Shkoon, formazione parte siriana parte tedesca con sede ad Amburgo.

Il testo è in arabo (egiziano per l’esattezza), quindi a un primo ascolto non me ne curo particolarmente (dovrei prima tradurlo). Quello che mi colpisce lì per lì sono i suoni, le atmosfere, il beat avvolgente, la soddisfazione di aver finalmente trovato qualcosa di fresco e moderno che sembri venire da lontano. E che difatti lo fa. Incuriosito, dopo più di un paio di ascolti ripetuti e in loop vado a cercare il video: a un primo sguardo mi sembra tutto sommato un normalissimo video di musica house: un ragazzo con un berretto, la barba sfatta e una maglietta Hummel che vocalizza durante un’improvvisazione (e del resto è così che a quanto pare è partito il tutto), un altro ragazzo accanto a lui, con barba bionda, console e MacBook di rito, luci stroboscopiche e sfondo nero.

I due membri originari del progetto Shkoon: a destra il siriano Ameen Khayr, vocalist e autore dei testi di alcune canzoni, a sinistra il producer tedesco Thorben Tüdelkopf.

A un certo punto però dietro al logo Apple compare un nuovo sfondo: una città in macerie, edifici in rovina, e il drone (suppongo) che sorregge la telecamera si sposta a riprenderla mentre il montaggio ripropone alternativamente i due ragazzi e la città, la musica e le macerie. Sono immagini che non ci vuole molto ad associare oggi come oggi. Macerie + lingua araba = ok mi state parlando della Siria, ho capito dove state andando a parare.

E invece no, non ho capito niente: il video prosegue, ci sono varie persone, giovani, adulti, donne, uomini, che reggono cartelli, con vari messaggi (sì ultimamente questa cosa ha fatto abbastanza il suo tempo ma nel 2015 forse poteva essere ancora una novità). Nulla di necessariamente “politico” però. Sono messaggi quasi personali, del tipo “When I’m not able to decide / I question the question” o “When people deny my right to exist / I play my music to shut’em up”. Sempre più incuriosito dalla politicità e allo stesso tempo dall’apoliticità del tutto, cerco finalmente di capire e mi metto a tradurre la canzone.

Le macerie di Deir Ez-Zor, che compaiono nel video al minuto 1.10, al momento dell’ingresso  prepotente dei bassi, subito dopo che Ameen ha scandito la parola ghenina, in egiziano”giardini”, ma anche “paradiso”

Ad un certo punto mi rendo conto, però, che questa canzone, non è loro. Che è un pezzo scritto all’incirca negli anni ’60 da un poeta egiziano morto nel 2013, Ahmed Fouad Negm, cantato all’epoca da Sheikh Imam, storico cantante egiziano. Dalla wiki di entrambi non può poi non saltarmi all’occhio l’impegno politico di entrambi, soprattutto del primo, scontratosi nel corso della sua vita con tutti i dittatori egiziani sotto i quali visse, Nasser, Sadat, e in ultimo Mubarak (non posso che immaginare cosa avrebbe pensato di Al-Sisi, salito al potere solo dopo la sua morte), e che per questo fu più volte incarcerato.

Bene, questo elemento mi ritrovo a scoprirlo però poi anche nella biografia di uno dei membri degli Shkoon, gruppo il cui nome in arabo siriano è all’incirca l’equivalente di “Di cosa parli?”. Ameen Khayr è infatti uno studente di ingegneria originario di Deir Ez-zor città sull’Eufrate, vicina a Raqqa, città sul confine iracheno oggi tristemente nota. Durante i suoi studi universitari ha però avuto più volte modo di scontrarsi con il potere costituito, in questo caso quello incarnato dal dittatore Bashar Al-Assad, finendo appunto incarcerato per un breve periodo.  Sfugge dunque nel 2013 all’arruolamento forzato nei ranghi di un Esercito Siriano in cui non si riconosce e si allontana dalla Siria, – in aereo da Damasco, nulla di particolarmente tragico nel suo caso – alla volta di Istanbul, prima, e dell’Europa poi, finendo per installarsi ad Amburgo.

Artwork (dall’ autore non precisato) dell’EP Build Your Castle, disponibile gratuitamente sull’account Soundcloud dell’etichetta Underyourskynrecords

Non è però solo il suo vissuto a essere raccontato in Build Your Castles (Shayd ‘usurak in originale). Come non lo è nemmeno solamente quello del producer tedesco Thorben Tüdelkopf  (Maher Alkadi anche lui rifugiato siriano, nonché violinista del gruppo, si inserirà solo successivamente). A essere eviscerato in questa canzone – per certi versi una sorta di Contessa araba, in termini quantomeno di invettiva contro il potere – è da un lato lo scontro di ogni cittadino con il potere dispotico , che si asserraglia nella sua fortezza e non ha coscienza di quanto schiaccia sotto di sé.

“Costruisci i tuoi castelli sopra la nostra fattoria / Costruita con il lavoro delle nostre mani /E metti taverne accanto alle fabbriche / Prigioni al posto dei giardini”

Dall’altro lato è un invito a tutti a resistere. É certo abbastanza impossibile non rileggervi oggi una critica al regime siriano in piena guerra civile: come leggere in altro modo parole come “Abbiamo sofferto e ne abbiamo avuto abbastanza / E sappiamo chi è la causa delle nostre ferite”?  Però la questione, già di per sé problematica, non si esaurisce qui. Il video stesso rilancia. L’incoraggiamento, la solidarietà, la musica non sono esclusivi. Questo pezzo, con le sue atmosfere quasi da meditazione, e il suo beat coinvolgente, è un inno per tutti, un inno a superare le sofferenze ed andare oltre. A costruire i propri castelli. A realizzare ciò che si vuole. A resistere a chi ci vorrebbe ingabbiare in qualcosa che non siamo. A sfuggire alle nostre prigioni. E questo, anche e soprattutto, grazie alla musica.

“Conosciamo il nostro cuore e ci siamo uniti / Lavoratori e contadini e studenti / L’ora è scoccata: abbiamo iniziato a seguire una strada senza ritorno e la vittoria è alla portata dei nostri occhi / e la vittoria è a portata di mano”.

Illustrazione ad opera del sudanese Khalid Albaih

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