Roman Flügel – All The Right Noises

md-romero
Tempo di lettura: 5' min
28 October 2016
Review 4 U

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Più che Minimal, l’album di Roman Flügel, si può definire Essential. La musica è composta dall’essenziale e nulla più. Ogni suono è dosato e calibrato attorno a silenzi che sono parte integrante della melodia. Le influenze Jazz e Krautrock dei suoi lavori precedenti passano in secondo piano nei confronti di un progetto ambizioso e a dir poco affascinante. La scomposizione del suono, della suggestione, frammenta anche la percezione dell’ascoltatore. Il singolo suono è padrone e, lontano il più possibile da suggestioni musicali, l’ascoltatore si concentra sul semplice passaggio.

La traccia d’apertura, Fantasy, è una malinconica scala di tre note in un iter che si arricchisce di un lieve eco in sottofondo. Nessun crescendo, nessuna aspettativa verso un attacco. Flügel suona distrattamente sulla tastiera, le dita che accarezzano lo stesso passaggio in un giorno qualunque prima di mettersi all’opera.

The Mighty Suns si pone con una serie prepotentemente maggiore di suoni ma, comunque, in linea con la filosofia del disco. Abbiamo varianti su un semplice accordo che vibra sopra la ritmica a cui poi vanno a sovrapporsi altre sonorità più Jazzate con cambi di tempo che, insieme, creano una piacevole eleganza. L’unica suggestione ci viene data da una campionatura di industrial. Un gong di lamiera che ci dà l’immagine di uno spazio urbano.

Nell’apertura di Dead Idols è la ritmica a farla da padrone. A questo punto inizia a divenire chiaro all’ascoltatore che Flügel sta giocando con la nostra percezione di presenza e assenza inserendo quanto meno possibile un po’ alla volta. L’attacco si inserisce a 2:30 in un sei note che rende l’armonia ritmica un incedere ossessivo e rettile. L’ascoltatore ha tempo ad avere chiarezza e familiarità con ogni suono prima che ne venga inserito uno nuovo in una struttura simile al Bolero di Ravel che, però, non trova acme ma, anzi, ci frena con delle pause nella ritmica di base per poi gradualmente eliminare tutti gli elementi della composizione.

Nameless Lake si presenta con un registro totalmente diverso. L’ossessività di Dead Idols è lasciata da parte in favore di suoni rapidi e alti. Alcune suggestioni vicine alla Retrowave nell’attacco sono una piacevole alternativa. Nameless Lake è senza dubbio la traccia più lontana dalla proposta di Flügel e, salvo nel minuto di chiusura in cui si conforma al concept dell’album, suona nel complesso come un intermezzo prima della seconda metà.

Warm and Dewy, infatti, riprende immediatamente la linea essenzialista, proponendoci sequenze di due suoni e una ritmica ovattata che cozzano in dissonanza con passaggi Jazz, rapidi e transitori, rendendo ancor meglio il concetto di assenza e presenza di suono di cui è pregno l’album. Nella seconda parte della traccia si inserisce una melodia suggestiva che verrà necessariamente alternata dalla ritmica Jazz precedente. Tiepido e Frizzantino (lett. Dewy deriva da rugiada e in questo contesto simboleggia suoni freschi e pungenti, umidi) ovvero due contrasti morbidi e a loro modo armonici. Il dentro e il fuori prima dell’alba.

Della traccia successiva, Dust, si può dire che è il pezzo più accattivante dell’album, il più orecchiabile e il più suggestivo e, sebbene abbia finora gli accordi più complessi, non è un pezzo complesso. Si sentono le influenze spettrali della Avant Garde di Piero Umiliani senza discostarsi troppo dall’idea che sta alla base di All The Right Noises: non si deve assaporare una melodia quanto i singoli suoni.

Believers ci riporta alla malinconia di Fantasy, e paradossalmente ad una suggestione più realistica. Ci sono silenzi, suoni ad orologeria, meccanici. Silenzi assordanti. Campionature improvvise che danno il tempo di renderci conto del silenzio che stiamo ascoltando. La seconda parte ricorderà a qualsiasi patito di Progressive Rock la traccia Moonchild – The illusion antecedente a In The Court of the Crimson King dell’omonimo album dei King Crimson e ne porta nella sua genetica la stessa funzione. Ovvero quella di aprire la strada con delicatezza e silenzio a qualcosa di totalmente differente e caotico.

All The Right Noises, title track di questo album, ci risveglia dal piacevole torpor di Believers con una ritmica ansiogena sapientemente calibrata. L’attacco è un ovattato assolo di chitarra elettrica in distorsione che carica il pezzo di epicità nostalgica. Tutti i suoni giusti, non uno di più, non uno di meno. È l’apice epico e adrenalinico, è lo Spaunning letterario spogliato di tutto ciò che è superfluo e ridondante. Sono solo i concetti chiave. La traccia All the right noises è la scena eroica di un film della cui pellicola si riescono solo a definire i contorni.

Planet Zorg nello slang australiano indica un comportamento strano e bizzarro. Non è un caso che sia il titolo adatto alla penultima traccia. Qui i giochi di silenzio e suono si perdono completamente. Planet Zorg è un pezzo estraneo per concetto, sebbene il range di suoni sia simile. Trattasi di un brano più vicino allo space rock che alla minimal e, sebbene sia assolutamente armonioso, suggestivo e piacevole è totalmente estraneo al comparto dell’album. Il brano musicale sembra venire effettivamente dal pianeta Zorg rispetto al mondo di All The right Noises.

La traccia di chiusura, Life tends to come and go, si pone come un sunto di tutto quello ascoltato finora. Il piano di Fantasy e la meccanica delicata di Believers, le suggestioni da space rock in apertura, sonorità che ricordano the Mighty Suns e sottofondi ronzanti simili alle dissonanze di warm and dewy nel background. Tutto si spegne molto placidamente in una tranquillità Zen.

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Se, All the right noises fosse un concept album, sarebbe la trasposizione in musica di In’ei Raisan, il Libro d’ombra dello scrittore Jun’Ichiro Tanizaki. Tanizaki nel suo saggio elogia il fascino dell’ombra, dell’eleganza del vuoto, in tonalità pallide e velate contrapposto al chiaro, al brillante, al prosaico tipicamente occidentale. L’ombra permette di vedere proprio nell’indeterminato la vera essenza delle cose. Un parallelo con la stessa poetica essenziale di Tanizaki risulta quasi ovvia. Il superfluo viene cancellato, ogni parola soppesata e valutata.

All the right noises ha nel suo comparto tutto questa serie di concetti e, partendo da queste basi, il suo scopo è di farci assaporare sensorialmente singole sonorità pure, libere da ridondanze, rimescolamenti e virtuosismi barocchi, in una suite di armonie profondamente riflessive. La falla fatale in tutto questo è la mancanza di continuità fra una traccia e l’altra. Ad un ascolto attento l’album è profondamente disgiunto e fatta esclusione per la reiterazione sopra citata delle tracce 1, 7 e 10 abbiamo un lavoro che se, nelle singole prove ogni suono risulta armonico sia di per sé che congiunto al resto, così non è per le tracce nel loro insieme. Tutto si riduce alla mera somma delle parti in un lavoro che, comunque, ha dentro di sé un’eleganza, uno studio e una bellezza invidiabili.

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