Anche per quest’anno roBOt, purtroppo, è terminato. Per la prima volta Polpetta Mag tira le somme di questa 6° edizione del Festival bolognese, dedicato alla musica elettronica e all’arte digitale.
Nella sezione Art vogliamo raccontare quali emozioni ci hanno regalato i diversi artisti che hanno partecipato a roBOt by Day, dentro e fuori Palazzo Re Enzo.
In questa prima sezione esploriamo gli artisti più vertiginosi, appartenenti alle sezioni Live e Performance.
Per quanto riguarda i live, vanno ricordati in primis i Zimmerfrei.
I Zimmerfrei sono un trio tutto italiano di artisti eclettici, composto da Massimo Carozzi, Anna de Manincor e Anna Rispoli. La loro arte racchiude al suo interno contaminazioni che provengono da diversi ambiti, come performance, musica, cinema e teatro. È la loro prima volta a roBOt (anche se Massimo aveva già partecipato al festival 2 anni fa). Lavorano col suono da moltissimo tempo ma, in esclusiva (a Bologna), presentano un nuovo progetto sonoro, intitolato “Safari”.
Durante una chiacchierata, Massimo ci parla di questa performance come di una “bellissima esperienza, che richiede un certo tipo di attenzione e che il pubblico del roBOt ha saputo pienamente offrire.” Questo loro lavoro si è incentrato sulle “proprietà che ha il suono di proiettare delle immagini dentro la testa, solo ascoltandola e solo cercando di immergersi nei paesaggi sonori”; e chi era presente può sicuramente affermare che questi artisti siano riusciti a ricreare un’atmosfera davvero magica e surreale, capace di catapultare gli ascoltatori in un mondo “altro”. Cercando di scoprire di più sulla natura di questi suoni, Massimo ci spiega che “i materiali che ho fatto ascoltare, sono delle registrazioni che provengono dal nostro archivio di registrazioni ambientali che abbiamo fatto durante gli ultimi 10 anni, che sono servite, tra le altre cose, anche per costruire il sonoro dei nostri film. Ora, da un anno a questa parte, abbiamo pensato di creare questa situazione di ascolto, in cui cerchiamo di creare una specie di narrazione cinematografica solo attraverso il suono”.
Gli chiediamo maggiori informazioni sull’aspetto più tecnico del loro lavoro: “c’è una struttura creata a priori, che di volta in volta cambia. Sono 4 tracce di ambienti che vanno insieme e che io mixo in tempo reale, anche a seconda di come risponde l’ambiente in cui stiamo svolgendo la performance.” Gli strumenti utilizzati sono un computer e poi i suoni nudi e crudi come li hanno registrati senza l’aiuto di effetti.
Passando dai live alle performance artistiche, incontriamo Roberto Pugliese, con il suo lavoro intitolato “Itineranti risonanze architettoniche”. Roberto, caricatosi sulle spalle un misterioso congegno, capace di trasformare le architetture che lo circondano in suoni; attraversa il centro di Bologna, seguito da un gruppo di fedelissimi, in religioso silenzio. Cammina a passo svelto per un’ora, facendo qualche tappa in alcuni dei luoghi più rappresentativi della Bologna antica (le gallerie De’ Toschi e Acquaderni per citarne un paio). Durante queste soste Roberto lascia sgomenti i passanti che lo osservano: quello zaino curioso che si porta dietro, fa risuonare le architetture coperte del centro. É come se i fantasmi di quelle antiche mura, fossero capaci di urlare tutta la loro solitudine. La sua ricerca lega insieme Sound Art e Arte Cinetica e Programmata, c’è quindi un’unione tra arte del presente e del “passato”. Questo binomio ritorna anche durante la sua performance, accostando i luoghi antichi di Bologna, al presente “qui e ora” in cui avviene la sua azione artistica. Grazie ad apparecchiature meccaniche che interagiscono tra di loro, con l’ambiente che lo circonda e con il fruitore, la sua ricerca artistica si sviluppa su diversi livelli. I principali aspetti che Roberto vuole indagare sono: esaminare i fenomeni legati al suono, analizzare i processi della psiche umana, approfondire il rapporto tra uomo e tecnologia e quello tra arte e tecnologia, il tutto senza tralasciare l’aspetto visivo. Un’azione artistica così complessa, che paradossalmente può scaturire nel non-sense.
Tornati a Palazzo Re Enzo, proseguiamo con un’altra performance di grande effetto: quella proposta dai Fake Samoa.
Il duo Fake Samoa, composto da Giuseppe De Mattia e Nico Pasquini, si è presentato al bando Call4roBOt con l’opera intitolata “Spiral Composition”. Purtroppo non sono stati i vincitori del bando, ma sono gli unici ad aver ricevuto una menzione d’onore da parte dei giurati. Riportiamo dal sito di roBOt Festival la riflessione dei giurati: “Declinazione originale e sorprendente dello scenario ‘techno’. Immagini e suoni maniacalmente puntuali che però richiamano alla mente la solitudine e lo stravolgimento emotivo di coloro la cui vita è scandita da una gestualità sempre identica ed alienante. Immagini davvero molto intense, fotografia impeccabile. È forte l’impatto ipnotico che richiama il tema ‘vertigine’ declinandolo anche a livello sonoro. (forse paga lo scotto di non averlo giudicato dopo aver assistito al live). Più che cesellato, tornito… Bellissima la fotografia, e il suono industrial, che pur essendo fortemente didascalico risulta ben plasmato.”
Durante la nostra intervista, i Fake Samoa ci parlano del loro lavoro: il nostro progetto è fondato sul rapporto tra immagini e suono. Lo scopo è quello di indagare la relazione che ci può essere tra immagini e suono se programmati per stare insieme, al fine di dar vita ad una forma espressiva in cui questi due elementi si fondono. Alla base c’è una ricerca di tipo antropologica sulla ritualità e ripetitività del gesto, sottolineando gli elementi visivi e acustici di questi fenomeni culturali.”
In questo loro lavoro, il suono ritmato e ossessivo sposa perfettamente i movimenti meccanici delle immagini; ci chiediamo come sia entrata la lavorazione meccanica all’interno della loro arte. Giuseppe e Nico ci rispondono così: “questo lavoro è basato sulla ricerca del rapporto tra uomo e macchina nel suo scenario industriale. L’incessante ripetitività dei macchinari evocata dalle immagini, è interpretata a livello sonoro fino a fondersi con esso. La lavorazione per le immagini, come per il suono, è stata creata a partire da una serie di loops ritmici, combinati tra loro per dare vita a una composizione, “spiral composition” appunto. La ripetizione ossessiva è l’elemento centrale nei movimenti ritmici o circolari dei macchinari, così come la gestualità sempre identica e alienante. La composizione musicale ha la funzione di mettere in risalto gli aspetti acustici ed emotivi attraverso un linguaggio “techno”, per evidenziare la dimensione di un’atmosfera industriale.”
Proseguiamo la nostra chiacchierata affermando che il loop sonoro e la circolarità delle immagini risulta quasi un mantra industrializzato; ci chiediamo cosa ne pensino a riguardo: “la definizione è alquanto calzante. Il nostro scopo oltre tutto è quello di ipnotizzare lo spettatore. La ripetizione come loop è paragonabile alla ripetitività sempre uguale di un rito, religioso o pagano e come tale ha un effetto fortemente ipnotico. Il rito e in generale la ritualità dei gesti, è una cosa che lega molto l’uomo alla macchina. Pensate alla ritualità che c’è all’interno del meccanismo di un orologio, che in più segna il passare del tempo sempre uguale a se stesso. Ciò che invece ci fa pensare al trascorrere del tempo è lo scarto che è provocato dal tempo stesso: nel nostro caso erano i trucioli delle lavorazioni al tornio che ci facevano capire che il rito produce effetti differenti nel tempo.
In chiusura gli chiediamo un’anticipazione sul loro progetto in cantiere; l’unico indizio che riusciamo a strappargli è: un lavoro sul buio.
Gli altri performer che ci hanno deliziato durante il festival sono stati: Mattew Collings, Nero.txt e Esnho, La capra – la panca, Otolab, Marco Mendeni e Bob Meanza, Francesco Giannico, Von Tesla, Andrea Magnani, Saguatti – Coïaniz – Fameli e Sailer, A-li-ce & Swub.
Partecipa alla conversazione!