Hobocombo – Il trio che ha fatto dell’opera di Moondog molto più che una fonte d’ispirazione #Interview#

cecilia
Tempo di lettura: 4' min
6 March 2014
Interviste

Andrea Belfi, Rocco Marchi, Francesca Baccolini aka Hobocombo.
Il trio esce con il suo secondo album interamente dedicando a Louis Thomas Hardin, alias Moondog.
Di seguito tutte le curiosità che una tribute band così interessante può raccontarci.

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Quando è iniziata la fissa per Moondog? Da chi di voi tre in particolare?

Tutti e tre conoscevamo già l’opera di Moondog ma la proposta di ri-suonare la sua musica è venuta da Andrea, quando ci siamo incontrati per preparare quello che doveva essere un’evento spot per il festival Verona Risuona, che si tiene nelle strade della città scaligera. Inutile dire che siamo stati stregati dal Vichingo della 6th Avenue e un mese dopo stavamo registrando il nostro primo disco: “Now That It’s The Opposite, It’s Twice Upon A Time” (Trovarobato Parade – 2010).

Cosa vi ha folgorato in particolare di lui? Voglio dire, dedicare l’attività del proprio gruppo a un altro artista è una scelta che probabilmente non deriva da un aneddoto letto su Wikipedia.

La straordinarietà di Moondog sta nella sua musica, ma certo la sua biografia non è priva di fascino. A causa di un incidente perse la vista all’età di 16 anni, successivamente frequentò una scuola di musica per non vedenti dove studiò composizione. Dalla fine degli anni ’40 fino ai ‘70 visse e suonò per le strade di New York, lo si poteva incontrare all’angolo fra la 6th Avenue e la 52nd Avenue mentre indossava un lungo mantello e un elmo da vichingo. Era conosciuto e stimato dagli esponenti della musica colta (fra i suoi estimatori ci fu Arturo Toscanini) e dai musicisti della scena be-bop (fu amico di Charlie Parker, a cui dedicò il brano Bird’s Lament) è considerato un precursore del minimalismo per la grande influenza che esercitò sui giovani Philip Glass e Steve Reich, con cui realizzò alcune incisioni di fortuna. Musicalmente è uno degli artisti simbolo della New York degli Anni Sessanta: un’icona trasversale, in bilico tra cultura alta e pop. Entrare nel linguaggio musicale di Moondog è stata ed è per noi un esperienza molto stimolante, un’immersione in un paesaggio vastissimo che accoglie in un solo abbraccio il minimalismo, la musica dei nativi americani, il jazz, il contrappunto; una musica che si serve del canone come dello swing e mette in crisi la forma canzone senza tradirne l’immediatezza.

Fondare un gruppo che è quasi una tribute band è una scelta molto mirata. Qual è stato il percorso, per ognuno di voi, che vi ha condotto a una decisione così radicale?

In realtà non ci è mai sembrata una scelta radicale. Suonare musica che ti piace è una cosa piuttosto consueta. Più sorprendente è stato scoprire che non solo ci trovavamo perfettamente a nostro agio nel rielaborare quel repertorio, ma che dal processo di rilettura emergeva nitida la nostra musica. Passare dal manipolare i brani di Moondog a comporre i nostri è stato un percorso istintivo, naturale e, ci pare, coerente.

Avete utilizzato gli strumenti inventati da Moondog nel vostro disco?

Andrea ha ricostruito la Trimba sulla base di alcune foto disponibili in rete e durante le sessioni di registrazione abbiamo re-inventato l’Oo, che nei credits del nostro disco compare come Electric Oo.

Quali sono le altre influenze, oltre Moondog e Wyatt, che hanno influenzato il vostro ultimo album?

Duke Ellington, Joe Meek, la musica popolare italiana raccolta agli inizi degli anni ’70 da Roberto Leydi, Les Baxter.

A livello di processo, come nasce un vostro pezzo?

Non avendo molto tempo per le prove e abitando in luoghi distanti (Andrea a Berlino, Rocco e Francesca a Bologna) ci mandiamo le bozze, i provini, i frammenti che abbiamo elaborato. Successivamente, in prova, mettiamo il brano sul nostro immaginario tavolo di lavoro, sviluppiamo i temi e i suoni.

Avete fatto una guida audio per spiegare il vostro disco. Perché?

Ci è sembrato bello poter raccontare da dove traiamo ispirazione, anche semplicemente raccontando qualche aneddoto, e offrire ai nostri ascoltatori qualche spunto in più. E’ stato anche uno strumento di auto-analisi, per far venire alla luce i mondi e le contaminazioni che erano confluite in questo disco. Al contempo crediamo che il disco che abbiamo inciso sia del tutto autosufficiente e che si debba ascoltare liberamente, ciascuno affidandosi al proprio immaginario.

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I vostri riferimenti sono molto legati al clima culturale degli anni ’60 e ’70. Ritenete che il periodo storico attuale sia privo di spunti o che comunque ne contenga meno rispetto al passato?

No, piuttosto crediamo che senza la cultura degli anni passati sia impossibile elaborare quella odierna. I field recordings estrapolati dall’antologia di Roberto Leydi sono musiche (all’origine) ancora più antiche e che abbiamo riutilizzato decidendo di accostarle alla sonorità dei synth, perchè pensiamo che ci sia una stretta relazione di timbrica e immaginario.

Qual è il vostro piatto preferito?

Il nostro rider recita: “non ci sono restrizioni alimentari”. Gli Hobocombo passano felicemente dalla Pasta alla Norma alla Panissa novarese, dai Wurstel con crauti allo Shish Kebab Turco di Neukölln.

Ascoltando la vostra musica si percepisce la complessità della produzione. Come farete a riprodurre questa complessità anche dal vivo?

Il sound si è evoluto molto in questi quattro anni e dopo la pubblicazione del nostro primo disco. Essendo solo in tre sul palco, per il momento, abbiamo dovuto optare per una riduzione delle parti. Ma ci piace che sia così, disco e live sono due mondi diversi e nessuno dei due deve tendere necessariamente ad assomigliare all’altro. Entrambi però sono ricchi di colpi di scena: l’ultima scaletta, che abbiamo presentato al CTM Festival di Berlino in occasione della release europea, è un orgoglioso trionfo della dinamica, che passa dai fortissimo elettronici ai momenti di riduzione con la trimba.

Dea

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