Ensi è uscito con il suo sesto album, “Clash”

Lo abbiamo ascoltato per voi

polpetta
Tempo di lettura: 3' min
17 March 2019
Review 4 U
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«Mai iniziare una recensione citando frasi di altri»: mi disse una volta uno dei miei maestri. La seconda regola? Mai scrivere in prima persona.

Ma le regole, si sa, sono fatte per essere infrante. Proprio come fa Ensi in CLASH, sesto album ufficiale e terzo sotto major. Un disco quasi diviso a metà: fino alla sesta traccia (Rapper feat. un magistrale Johnny Marsiglia e Agent Sasco) ego trip e punchline fanno rimbalzare la testa a tempo, da lì in poi le melodie si fanno più malinconiche e le tracce iniziano ad affrontare temi delicati come l’amore, i ricordi e i momenti difficili. Tra le produzioni spicca il nome di Big Joe, che cura cinque dei dodici pezzi del disco, e che – diciamolo chiaramente – è un fenomeno.

La sindrome di Pharrell

Devo essere sincero, ho sempre avuto l’impressione che i dischi di Ensi avessero il pericoloso difetto di essere perfetti. La chiamerei sindrome di Pharrell Williams©. Pharrell è un mostro: musicista, produttore e rapper tra i migliori in circolazione, eppure i suoi dischi finiscono spesso per essere talmente curati da mancare di appeal.

In CLASH questo non succede, al contrario. Il rap è ruvido, grezzo, spontaneo. Le tracce chiedono di essere ascoltate in loop e le strofe vanno mandate indietro e imparate a memoria.

ATTENZIONE: può capitare di trovarsi per strada o in macchina a rappare contro i sucker (“Tu ce l’hai con chi fa i soldi, io ce l’ho ancora coi sucker”) mentre le persone ti osservano con circospezione. Una cosa che, per quanto mi riguarda, non succedeva da quando i Dogo erano ancora quelli di Mi fist.

Dighi Deng

Altro punto forte del disco sono le influenze dancehall. Il titolo del disco, il ragamuffin, i ritmi della yard sono perfettamente in tono con il background dell’autore e con le sue recenti esperienze, aka il tour con i Real Rockers di Macro Marco & Co., la crew del Red Bull Culture Clash 2016. Sono influenze che – come dire – indicano una scelta di campo.

La cultura caraibica è stata uno dei grandi affluenti della cultura hip hop degli anni 80/90, basti pensare ai sound system e al dj style giamaicano. Ma è una contaminazione che è sempre più sparita dalla scena italiana quando il rap ha raggiunto i canali di diffusione più commerciali. Riportarla in auge oggi è una scelta coraggiosa che dà solidità al disco e lo rende più fresco, meno soggetto all’erosione del tempo.

Una naturale dimostrazione di grandezza

È proprio in uno show dei Real Rockers che ho visto Ensi live l’ultima volta, la scorsa estate. Inutile stare a sottolineare i livelli altissimi di professionalità, carica e precisione del rapper piemontese sul palco. Il problema però è che è sempre molto difficile trasformare i pregi delle performance in un prodotto finito, mondano, sempre-uguale-a-sé-stesso come un disco. Per fortuna il processo alchemico qui è riuscito perfettamente, ed è riuscito proprio nel momento in cui Ensi ha lasciato andare le briglie delle regole e ha scritto di getto.

Novalis diceva che la bellezza è «la naturale spontaneità in una posa» (o qualcosa del genere), intendendo dire che i nostri momenti migliori sono quelli in cui pensiamo di non essere osservati (prendi questo, Instagram). Ecco, per essere fonogenici con naturalezza ci vogliono maturità e consapevolezza. Il giusto mix lo si trova quasi per caso, per brevi momenti, e CLASH ne è un esempio.

Riassumendo, in questo album troviamo i cambi di flow, gli incastri e gli extrabeat, ci sono fotta, racconto e introspezione. È rap allo stato puro, con il tocco in più di una spontaneità che riporta la freschezza dei live nelle nostre cuffie. Un disco da repeat costante – pardon, pull up – che non accenna a perdere la sua carica neanche dopo diversi ascolti. E oggi più che mai sappiamo che i dischi di qualità sono quelli che non si consumano con il tempo.

Pietro Mantovani

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