Alice In Chains live – La nostalgia che piace

Sherwood Festival 29.06.18

richard
Tempo di lettura: 3' min
2 July 2018
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È impossibile scrivere degli Alice In Chains allo Sherwood Festival senza fare un tuffo nei ricordi della mia adolescenza

E sono ben due i motivi che costringono il sottoscritto a questo amarcord.

Il primo è legato al festival. Probabilmente non tutti sanno che Sherwood nasce come radio indipendente nel lontano 1977 trasmettendo ottima musica su tutto il territorio veneto. Da quello poi venne la creazione del festival musicale estivo che ad ora è uno dei festival indipendenti più longevi d’Italia.

Lo notai per la prima volta sulle pagine di una rivista musicale – ormai estinta – e mi colpì subito la programmazione ricca di band punk, metal e di tutto quel filone di musica alternativa o di protesta che aizzava noi giovani negli anni novanta. Sognai di andarci per qualche anno finché non raggiunsi la maggiore età e l’indipendenza motoria (leggasi patente di guida). Da allora ne ho visti di concerti allo Sherwood. Parlo di nomi come The Prodigy, Cypress Hill, Manu Chao, Nouvelle Vague, ma potrei stare qui a elencarli all’infinito.

Il secondo motivo ovviamente è legato agli Alice In Chains. Ero poco più che quindicenne quando li scoprii ascoltando per la prima volta quel capolavoro del grunge che è il loro secondo album, Dirt. Era la metà degli anni novanta e l’unico modo per scoprire musica nuova era leggere riviste del settore o guardare Mtv che ancora passava molti videoclip e pochi programmi spazzatura.

La folgorazione avvenne in un freddo pomeriggio di novembre con il video di Would?. Quell’intro di batteria scandito come una marcia seguito dalla voce tormentata e dal cantato a tratti liturgico di Layne Staley fino all’esplosione del ritornello. Fu amore al primo ascolto. Almeno fino a quel tragico 2002, anno in cui il cantante morì di overdose, con successivo scioglimento del gruppo.

Una bella batosta, un’altra storiaccia alla Kurt Cobain. Non fu suicidio ma una morte annunciata. Il fondatore della band, Jerry Cantrell, impiegò diversi anni a metabolizzare la cosa e a riformare il gruppo con un altro cantante. William DuVall, già fondatore e chitarrista di Madfly e Comes with the Fall, ereditò una pesante responsabilità specialmente per il timbro vocale molto simile a quello del compianto Staley.

Ed è qui che torniamo al presente. Arrivo allo Sherwood pieno di dubbie aspettative. Dopo dieci anni dalla reunion questi Alice In Chains saranno ancora all’altezza oppure sono diventati la caricatura di se stessi come molte band sopravvissute agli anni novanta? Onestamente non mi sono mai preso la briga di guardare qualche live post-reunion su youtube, perciò l’esibizione di stasera è un tuffo nel buio.

L’opening act è affidato ai milanesi SHAME. Band formatasi nel lontano 1996, con sonorità che per alcuni versi mi ricordano gli Helmet riescono a scaldare un pubblico leggermente preoccupato per due gocce di pioggia cadute poc’anzi. Breve pausa e cala il buio sul palco. Tra le urla di incitamento partono i primi accordi di Bleed The Freak, brano del primo album. Passano subito a Check My Brain, del quarto album e primo della dopo la reunion nel 2008 e poi Again dall’album omonimo. La premessa dai primi tre pezzi è quella dell’operazione nostalgia.

Sarà così per quasi tutta la durata del concerto, salvo ogni tanto inserire in scaletta qualche brano più recente con una buona alternanza. Impossibile non cantare a squarciagola Down In a Hole fino ad una non troppo intensa – ma comunque commovente – Nutshell a metà esibizione e successiva Man in the box prima della pausa. Tornano sul palco con la recentissima The One You Know dell’ultimissimo album, poi Got Me Wrong – che tutti ricorderanno nella colonna sonora di Clerks – e chiusura col botto con la doppietta Would? e Rooster.

Insomma un’esibizione promossa con più della sufficiènza nonostante l’invecchiamento non troppo magnanimo di Jerry Cantrell, nonostante gli ultimi album non siano poi così speciali e nonostante la solita tiritera “il vero cantante non ci sia più”. Questi Alice In Chains riescono ancora ad emozionare sfruttando molto bene l’effetto nostalgia. Del resto come abbiamo visto più volte, è difficile uscire vivi dalla scena di Seattle degli anni novanta se non ti chiami Dave Grohl o Eddie Vedder. E a volte alcuni ne escono un tantino più malconci di altri.

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