L’Intervista: Polpetta Mag domanda, Dj Ralf risponde.

domenico
Tempo di lettura: 12' min
2 January 2020
Interviste
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Non servono introduzioni per chi da oltre 30 anni seleziona musica in giro per l’Italia e non solo, lui, Dj Ralf continua ancora a sperimentare tra house, jazz e percussioni contemporanee.

È stato un lungo viaggio con tutte le difficoltà del caso. Lo abbiamo cercato, pedinato, a volte stalkerato, ma non potevamo perdere l’occasione di fare questa chiacchierata con LUI.

Ce la siamo raccontata un pò, io chiedevo e Dj Ralf rispondeva.

Buona lettura!

Domenico: iniziamo con un pò di parole a caso che saranno le linee guida di questa chiacchierata: vinile, jazz, cinghiale, club, Titilla! Dette così non sono altro che semplici parole ma, come saprai meglio di me, a ognuna di esse si può associare una tappa della tua vita. Il tuo percorso musicale inizia all’età di 9 anni circa, la scoperta dei primi vinili dai tuoi zii, poi la chitarra, il basso e poi le prime feste con gli amici in posti che erano tutto tranne che club. Come hai capito che la musica sarebbe stata la tua strada?

Ralf: che la musica fosse parte integrante della mia vita, e che poi con il tempo è diventata una delle cose più importanti della mia vita, l’ho capito da ragazzino vivendo in un paesino con pochi stimoli e poche possibilità.

Appena c’era l’occasione di comprare un vinile con i miei amici lo si comprava e ci riunivamo a casa mia, o casa dei miei nonni o a casa loro e lo si ascoltava 60 volte fino a impararlo a memoria.

Quando abbiamo iniziato a suonare la chitarra cercavamo di fare i primi pezzi imparando gli accordi e cercando di emulare i grandi chitarristi che ci ispiravano particolarmente. Le prime esperienze si basavano più su cantautori di musica pop italiana, 45 giri di De Andrè, poi iniziai subito a comprare rock, il primo fu Jimi Hendrix e il disco fu “Killing floor”, che comprai addirittura alla Standa di Perugia. Fu poi la volta dei Creedence Clearwater Revival, poi Pink Floyd etc etc, compravo anche roba italiana dalla PF a Lucio Battisi e poi jazz inglese, non ho mai smesso di comprare dischi fino a quando non è diventata una professione.

Nel 1974/75 iniziai a lavorare in radio dove avevo la fortuna di trovare molti dischi. Se non avevo programmi passavo interi pomeriggi nella sala ascolti ad ascoltare quintali di musica.

Avrei voluto fare tante cose da piccolo, tra cui l’attore, in realtà ho anche fatto l’attore professionista con una compagnia teatrale umbra. Feci un lungo tour per due anni, avevo appena iniziato le superiori e mi piaceva ancora uscire a fare bordello con gli amici. Aldilà dell’ora e mezza passata sul palco, dietro c’erano tante ore di duro lavoro e prove che facevo a Foligno, e mi toccava andare con il treno tutti i giorni da Bastia Umbra (città dove vivevo) a Foligno e la sera tornare a casa sapendo che l’indomani mattina avevo scuola. Iniziò ad essere un pò stancante e a un certo punto ho mollato. Dopo l’istituto d’arte ho iniziato l’Accademia di Belle Arti – che non ho finito – e sono partito per il militare, una volta tornato un amico mi propose di suonare in un club di Perugia, per 18.000 lire a servizio: iniziai facendo sei servizi a settimana. Fu quello il mio primo stipendio che mi diede la possibilità di mantenermi da solo, considerando il fatto che già vivevo da solo. Così è iniziata la mia storia.

 

D.  Una storia che inizia intrecciata con vari generi di musica, dal punk alla new ave, fino al tuo grande amore per il jazz e Keith Jarrett (se non sbagliò fu il 1974 quando si esibì a Perugia in occasione dell’Umbria Jazz). La dimostrazione della tua poliedricità musicale che caratterizza la tua gioventù. La conservi ancora oggi?

R. Io sono solito dire che conosco due tipi di dj: quelli che hanno scelto di fare il dj perché appassionati a quello che ti può dare questo mestiere sia in termini di passione che di soddisfazione economica, e poi c’è un’altra categoria che è quella dei dj che prima di essere tali sono appassionati di musica e che hanno avuto la fortuna ed il piacere di trasformare questa passione in una professione. Io prima di essere un dj mi considero un totale appassionato di musica, in realtà all’inizio della mia carriera io neanche sapevo mixare, ora mixo ma prima di essere un dj penso di essere un “selettore di musica”.

Non ho mai avuto un attaccamento maniacale a un determinato genere di musica, sono un appassionato di musica come tanti altri dj e dò la precedenza a una certa apertura mentale sulla musica.

Dal 1986 mi sono orientato verso la musica house, che ritengo fondamentale per la mia carriera e che considero una vera “rivoluzione musicale” al pari del rock’n’roll o del hip-hop, e nonostante le diramazioni che ci sono state nel tempo, la cassa in 4 resta sempre legata a questo movimento che ancora riempie stadi e palazzetti. Con il tempo mi sono preso anche le mie libertà musicali durante i miei dj set, da Lou Reed a brani hip-hop o jazz.

 

D. È il 1986 quando iniziano a giungere anche in Europa i primi suoni americani, Chicago e New York. Senza pensarci ti butti su questo treno in partenza, con tutti i dubbi del caso anche considerando la scena italiana, e da allora non sei più sceso, come procede questo viaggio dopo più di 30 anni di carriera?

R. Considera che quando ho fatto questa scelta quello che prima riempivo poi ho iniziato a svuotarlo, però alla lunga la scelta è stata quella giusta. Il viaggio procede bene visto che sono ancora in corsa con molte soddisfazioni.

È stata una partenza alla cieca ma dentro di me c’era qualcosa che mi diceva che quella era la strada giusta, credevo in quel suono e se non avessi fatto questa scelta e proseguito ostinatamente su questa via magari sarei rimasto uno dei tanti dj, invece anche con le prime difficoltà si è creata e consolidata nel tempo una storia che mi ha portato a diventare quello che sono oggi.

 

D. Parte così la tua carriera e una delle prime fermate di questo tuo viaggio è l’Ethos mama club. Il tuo nome inizia a girare anche fuori dall’Umbria, la riviera inizia a fare tendenza e una sera ti becchi anche una mandria di cinghiali in pieno con la macchina.

R. Ho iniziato con la musica house nel 1986 in un parco a Perugia gestito da una cooperativa dove prima suonavo un pò di tutto dal funky, punk, new wave, elettronica. Inizialmente questa roba ha creato un pò di casino perché non veniva capita e accettata, allora decisi di farmi da parte e non imporre la mia musica. Non sapevo dove suonare decisi di fare un club mio insieme a due soci nel locale dove avevo iniziato la mia carriera l’Ultraviolet. Così iniziammo a fare i lunedì sera. Fu una bellissima avventura riuscita anche molto bene e fu allora che uno dei miei soci fece ascoltare una mia cassetta a un promoter del Plegine di Firenze, mentre io ero in viaggio a New York. Tornato trovai un messaggio nella segreteria telefonica in cui mi proponevano di suonare al locale. Feci una domenica, fu un after tea, il primo after tea d’Italia, andò molto bene e poi partimmo con i venerdì sera. In realtà si trattava di sostituire Flavio Vecchi che si era fatto male. A una festa Pitti mi ascoltarono i pr dell’Ethos e mi chiamarono a suonare, sempre per sostituire Flavio Vecchi che era anche resident all’Ethos. Rimasi all’Ethos per una stagione perché poi Flavio tornò. Dopo feci il 99 dove facevo funky e hip-hop e poi arrivò la chiamata del Titilla per l’inaugurazione. Considera che all’epoca il Titilla era una stanza con un tavolo e creammo tutto da zero, lo lasciai per una stagione, andai al Dadada, dove facemmo una grande stagione per poi tornare al Titilla dove sono rimasto fino a qualche anno fa.

 

D. Ed eccoci alla prossima fermata: il Cocoricò e il Titilla. La tua seconda casa, uno dei locali simbolo del clubbing italiano, famoso per la sua piramide di vetro, la sua trasgressione e quel mondo parallelo dentro un mondo parallelo. Per molti anni il tuo nome è stato associato al Cocoricò, per molti anni sei stato il simbolo del locale più trasgressivo d’Italia. Come è nato e come si è sviluppato nel tempo quest’amore?

R. L’amore è nato dalla spinta e dalla voglia del direttore artistico dell’epoca Ferruccio Belmonte e di alcuni pr di allora come Sergio Binaglia e Glauco Marconi, che mi presentarono alla proprietà e si decise di partire insieme in questa nuova avventura. Come ti ho già detto all’inizio il Titilla era una sala di decompressione con un tavolo, due giradischi e un impianto neanche troppo potente ma che nel giro di un paio di anni diventò un vero club nel club, ben organizzato e strutturato con un impianto bello potente, uno staff tutto suo fino a diventare uno dei luoghi simbolo della musica house in Italia.

 

D. Dall’underground si è passati un pò alla commercializzazione del club, i vari cambi di gestione, la necessità di avere sempre i guest e il conseguente aumento delle spese e di tutti i costi annessi a questo tipo di gestione, che ha fatto un pò perdere al locale quell’impronta di club, di familiarità e di attaccamento al dj resident. Possiamo dire che in Italia molti locali non riescono a fare a meno dell’ospite?

R. Si è così per molti club ma non per tutti, ad esempio Bellaciao è Bellaciao a prescindere dal nome, abbiamo sempre avuto una politica diversa nonostante passano a trovarmi e a suonare anche dj di fama internazionale, però chi viene sa che può aspettarsi una qualità musicale diversa, un ambiente diverso a prescindere da chi suona e anche dei prezzi diversi.

 

(continua sotto)

Dj-Ralf-interview

 

D. Restando al Cocoricò tu che c’eri dentro e che ci sei stato per 25 anni, verso la fine iniziavi a capire che qualcosa non andava più?

R. Nonostante la gente iniziasse a diminuire, non lasciai per questa ragione. Ci sono state alcune divergenze con l’ultima proprietà anche se devo dire che con loro si sono fatte grandi cose, per esempio abbiamo fatto diventare molto potente Villa Titilla. Il punto è che avendo sviluppato una politica di ospiti massiccia per i resident poteva esserci meno spazio, ma il motivo per cui ho lasciato è che a un certo punto ci si era resi conto, come in un matrimonio, che l’amore non c’era più, il rapporto piano piano si stava logorando. Provai a resistere per un pò cercando di mediare ma poi mi resi conto che forse era meglio salutarci.

Non voglio attribuire a questa gestione la fine della mia storia con il Cocoricò. Tutte le gestioni hanno avuto i loro problemi, ho letto che questa gestione ha avuto dei problemi finanziari importanti tali da arrivare alla chiusura del Cocoricò, però va ricordato che quando lo presero in mano trovarono comunque una certa crisi che riuscirono a risolvere, e gli va riconosciuto.

 

D. Voci di corridoio dicono che a Pasqua si riparte, cosa ne pensi di questa nuova avventura?

R. Guarda non mi sono informato molto, so che la nuova proprietà è la stessa dell’Altromondo, so che si tratta di una proprietà solida, abbiamo amici in comune, abbiamo fatto il MIF per due anni. Penso bisognerà fare dei lavori anche interni prima di ripartire, di sicuro è una buona notizia per la riviera e per il clubbing in generale. In riviera stanno rinascendo un pò di situazioni interessanti, a parte il Peter Pan, dove sto lavorando, poi hanno preso il Prince che avrà Tito Pinton come direttore artistico. Sperando che si riparta e che funzionino sono solo buone notizie.

 

D. Era il Gennaio 2006 e tornavi a suonare al Kinki dopo tanti anni (se non sbaglio 14°!). Al Kinki ho avuto il piacere di lavorare come pr, erano i miei primi anni universitari e quel club mi piaceva un sacco. Un posto piccolo, caldo, familiare, al centro della città. Torniamo a parlare di club in un contesto dove i festival stanno prendendo sempre più piede, dove si punta al grande evento, ai grandi spazi, ai palchi enormi e alle line up infinite. Che fine stanno facendo i club?

R. I club stanno vivendo una seconda primavera, ne vedo molti di piccoli o medi che sono molto attivi che non cito solo perché non voglio dimenticarne nessuno. Ovviamente il club deve avere una certa gestione, i cachet che si può permettere di pagare per ospiti sono proporzionati alla capienza e questo penso sia un bene per il club perché chi vuole fare “club” ragionando con questi numeri oltre al suo tornaconto, deve avere un certo interesse per la scena, poi se la scena muore allora muoriamo tutti!

D’altra parte non è scontato che i festival abbiano successo, tanti nascono e dopo un pò muoiono, se vedi quelli che sono rimasti forti sono quelli molto di profilo: Terraforma, Dancity, JazzRefound, mentre quelli più grossi li puoi trovare a Torino con il Kappa Future Festival, C2C, Movement, anche Bologna si sta riprendendo bene con il Robot.

 

D. Il 2006 possiamo considerarlo un pò come un tuo “anno d’oro”, suovani tanto dalla residenza al Cocoricò, alle domeniche alle Folies de Pigalle, il Maffia, Ibiza, insomma agenda fittissima. In quegli anni esce anche una tua produzione a quattro mani con Alex Neri “I’ve done it”. Come nasce questa produzione per te che la musica hai sempre preferito di più suonarla piuttosto che produrla?

R. In realtà sono un pò pigro, facendo tante date, quei pochi giorni che sono a casa piuttosto che chiudermi in studio preferisco fare altro. Ho tanto materiale che non è mai uscito, robe fatte con il gruppo jazz che prima o poi uscirà.

Per ora mi sto concentrando molto sull’etichetta “La Terra”. Ho fatto un pò di remix, quelli mi vengono meglio perché lavoro su del materiale fatto e ci metto il mio. Ho fatto un remix per Simoncino, per Baldelli, per Casinò Royale, e quando mi verrà l’ispirazione per una bomba allora la farò!

 

D. Come sta andando La Terra?

R. Quest’anno abbiamo fatto pochi dischi, è uscito “Amore” dei Pasta Boys, prima “Mad at U” di Blue Mondays, stiamo ricominciando con un nuovo label manager, è appena uscito “Lasciami qui” di Majuri, che sta andando abbastanza bene, è secondo posto in Spotify, abbiamo due o tre uscite pronte ma siamo parsimoniosi, io resto dell’idea che le etichette che fanno uscire un disco a settimana si perdono.

 

D. Fine anni 90 e primi 2000 sono anche gli anni in cui c’erano delle vere e proprie comunità di clubbers. Si partiva il sabato sera e ci si ritrovava la domenica. Si socializzava di pù in pista e si facevano meno foto e/o video. Questa socializzazione virtuale sta facendo perdere il concetto di socializzazione reale, come la vivi questa evoluzione dei social nei club? Che rapporto hai tu con i social, considerando il fatto che per te costituiscono anche uno strumento di comunicazione?

R. Non ho un account facebook gestito da me, il mio account facebook è gestito dal mio staff, facciamo solo comunicazione su serate, si può dire che io intervengo raramente, anzi si può dire quasi mai. Ho un account twitter dove non parlo di musica, parlo invece di politica, di questioni sociali e di costume. Su Instagram metto i flyers delle serate e raramente lo uso per cose che riguardano la mia vita privata. Tirando le somme io devo dire che, personalmente, tutto questo cambiamento causato dai social non l’ho vissuto.

Quello che dici tu è vero in parte, questa voglia di fare foto la noto anche io e a volte mi disturba un pochino, però non penso che si sia perso il contatto fisico, reale e socializzante.

Sono cambiate un pò di cose, prima i pr ti chiamavano di persona, ora invece si fa tutto via internet, d’altronde internet ha cambiato il mondo e non poteva non cambiare anche i club.

Ha cambiato il mondo in positivo per tutte le cose buone che ci ha dato in questi anni, e purtroppo anche in negativo perché ha dato strumenti di opinione a gente che lo usa con odio, con cattiveria e per diffondere notizie false, però non si può dire che abbia rovinato il mondo (come sostengono in tanti), oggi grazie a questo strumento certe cose che succedono nel mondo le vedi in tempo reale, per cui la comunicazione e l’informazione è agevolata.

 

D. Ci hai appena detto che utilizzi twitter per esprimere le tue idee politiche, politicamente cosa pensi si è fatto e/o si stia facendo per la tua categoria e per il mondo del clubbing in generale?

R. Per la mia categoria il mondo politico ha sempre fatto ben poco al di là di alcune realtà locali come sindaci o assessori intelligenti. La politica nazionale e le normative vigenti, a differenze di altri paesi come la Germania o l’Inghilterra, non mi sembra agevolino il clubbing in Italia anzi lo ostacolano per una serie di visioni abbastanza ostili, per cui non credo che sia cambiato molto.

 

D. Come è stato ritrovarsi con Alex Neri e Claudio Coccoluto dopo un pò di anni che non suonavate insieme?

R. Molto bene, ci siamo divertiti molto. Ho spinto però affinché non diventasse un format o una cosa revival, non so come la pensano gli altri ma io l’ho chiarito sin dall’inizio. Detto questo mi ha fatto molto piacere, soprattutto perché abbiamo riallacciato i rapporti con due djs con cui non ho mai avuto problemi, al massimo qualche divergenza o malinteso che abbiamo sempre risolto. È sicuramente qualcosa che rifaremo appena possibile.

 

D. Mi tuffo un pò nel passato, un evento in particolare. 1976, Parco Lambro a Milano, in occasione del Festival del Proletariato organizzato da Re Nudo (parliamo di una delle prime riviste avanguardiste italiane) a un certo punto gli Area staccano un cavo da un sintetizzatore e lo lanciano verso la folla, creando un’alterazione di frequenza. Fu un gesto tra il provocatorio e il futurista, comunque un gesto che creò nuovi suoni sperimentali.

R. Gli Area non erano nuovi a questo tipo di comportamento e a questo tipo di suono free jazz destrutturato, che si rifaceva a un concetto di musica contemporanea che in quel periodo la Cramps diffondeva. Li ho visti tre o quattro volte dal vivo anche in altre location e facevano molta sperimentazione di rottura

 

D. Anche tu sei sempre andato alla ricerca di suoni sperimentali, soprattutto negli anni in cui ti sei esibito sul palco del Umbria Jazz

R. 2012, 2013 e 2014 abbiamo fatto il record di presenze di tutti i tempi ed era mia intenzione proporre una certa tipologia di musica sperimentale. Anche i musicisti con cui ho collaborato, sono musicisti avvezzi a questa logica, Giovanni Guidi, Gianluca Petrella, Marcello Ramadori, parliamo di musicisti che insegnano e che hanno collaborato e collaborano con orchestre sinfoniche in tutto il mondo, i Tetraktis percussionisti che spaziano dai suoni sperimentali a quelli classici contemporanei, Enrico Rava, jazzista d’avanguardia. Ho pensato a un collettivo che poteva prestarsi ad un tipo di sperimentazione del genere.

 

D. Siamo alla fine e prima di farti l’ultima domanda vorrei ringraziarti per il tempo che ci hai dedicato, è stato per me un onore ed u piacere (e personalmente il piccolo coronamento di un sogno) fare questa lunga chiacchierata con te.

Io le chiudo sempre così: la tua pizza preferita?

R. Sono due le mie pizze preferite: mozzarella funghi e salsiccia, o solo mozzarella e salsiccia, rigorosamente senza pomodoro!

D. Grazie Ralf a presto!

Grazie a voi!

 

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