Il modulare: un meraviglioso intreccio di cavi e di suoni

tommi-marchesini
Tempo di lettura: 3' min
18 June 2018
In sintesi
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Da sempre presenti negli studi dei più grandi pionieri e sperimentatori i modulari sono la versione “scoperchiata” di un sintetizzatore tradizionale

I setup live di oggi si stanno dividendo in due grandi “macro” tipologie: il setup interamente digitale, ed il setup interamente analogico. Con alcuni setup ibridi che stanno in mezzo a queste due realtà.

Il setup interamente digitale è una conseguenza del progresso tecnologico in ambito musicale. Esso permette ai musicisti di portarsi dietro nient’altro che un computer ed alcuni controller midi che funzionano da “telecomandi” per gestire gli strumenti digitali presenti sul computer. I programmi per comporre musica diventano sempre più versatili, intuitivi, e ricchi di banchi suoni e di plugin VST (Virtual Studio Technology) che permettono di creare sonorità che alcuni setup analogici ormai non possono più creare – o per lo meno non con la stessa facilità ed il costo di un VST.

 

 

Il setup interamente analogico è l’opposto di quello appena descritto. Comporta quindi l’assenza totale di computer, controller digitali e schermi che permettono ai musicisti di “vedere” gli arrangiamenti e le onde sonore di ciò che stanno creando. Nei setup analogici di oggi si vedono strumenti sempre più complessi. Questi sono spesso caratterizzati da drum machine, synth, e i sequencer che mandano segnali agli strumenti “di bordo”. Ma in particolare sta tornando uno dei macchinari più complessi ed affascinanti da vedere e da sentire: il modulare.

I synth modulari seguono lo stesso principio dei synth tradizionali “a tastiera” ma senza tasti. Danno una libertà creativa completamente diversa rispetto ai synth tradizionali, e generano suoni che spesso non sono riproducibili con altri strumenti. Da sempre presenti negli studi dei più grandi pionieri e sperimentatori (talvolta anche di coloro che non facevano necessariamente musica elettronica, come i Radiohead) i modulari sono la versione “scoperchiata” di un sintetizzatore tradizionale. È come se avessimo un’automobile senza la carrozzeria e con i componenti ed i collegamenti fatti “a mano”.

 

DeWalta, Caprices Festival 2018

 

I cavi colorati vanno a connettere i cd. moduli, ognuno dei quali è responsabile della generazione, della modifica o appunto della modulazione del suono. Riverberi, oscillatori, LFO, inviluppi e altri “giochini” con nomi che sembrano supercazzole. Anche i synth analogici tradizionali hanno dei moduli che modificano il suono in un determinato modo, ma sono “fissati” all’interno del synth. L’ordine con cui questi moduli interagiscono non è modificabile – sono “hard-wired” al loro interno – e coperti dalla carrozzeria della macchina.

Il modulare è un sintetizzatore nella sua forma più rudimentale, ed il pilota della macchina sceglie il percorso che il suono andrà a fare, generando note casuali, suoni inaspettati e atmosfere ritmiche che spesso si devono registrare velocemente – il modulare infatti non ti permette di “salvare” e richiamare in un secondo momento ciò che hai creato.. ed una magia sonora che nasce da questi macchinari spesso non può essere riprodotta due volte.

I modulari sono macchinari difficili da avviare. Comporre un groove con un modulare può richiedere da 5 minuti ad un’ora intera, a seconda della complessità. Richiedono pazienza e denaro (possono arrivare a costare proprio quanto un’automobile.. assicurazione e manutenzione inclusa) e hanno una storia ben precisa. Nascono negli anni ‘60 dalle menti di Don Moog e Robert Buchla, che come si può intuire daranno poi i nomi ai due storici sistemi che si contendono e il “mercato” e l’approccio con il quale vengono generati i suoni. Il Moog è quello nero con i bordi di legno mentre il Buchla è quello grigio con le lucine colorate, ed i suoni sono quelli unici (nel vero senso del termine) che sentiamo nei dischi dei Depeche Mode, dei Kraftwerk, dei Legowelt.. e di chi da loro dichiara di aver sempre preso ispirazione:

 

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