DEKMANTEL 2016: Il vincitore totale.

luca-vitale
Tempo di lettura: 6' min
1 September 2016
Festival, Il Giovedì di Vith, In primo piano

Magico. Non c’è altra definizione per descrivere Dekmantel. Il connubio perfetto tra tutte quelle componenti che fanno grande una festa: persone, infrastrutture, artisti, servizi. Eppure la parola festa non racchiude nemmeno un briciolo di potenza espressa da questa rassegna straordinaria, capace di allineare ecletticità e qualità in modo sbalorditivo.

Avete presente quando si entra al luna park da bambini ? Quel senso di attrazione che le luci, i suoni, i colori di quel luogo sono capaci di attivare in noi? L’effetto è esattamente il medesimo.

L’impatto con il festival playground è notevole, soprattutto per chi non è abituato a certe situazioni: 5 stages, una area ristoro degna di un GP di Formula 1, aree di competenza ben delimitate e nessun tipo di coda tra ingresso/bar/servizi igienici.

E al nostro arrivo tutto questo meraviglioso complesso ci è apparso come una sorta di oasi benedetta, campeggiata nel main stage dal Maestro Ricardo Villalobos che ci ha deliziato del miglior antipasto per questa lunga maratona; lo stage era formato da una tensostruttura semicircolare con la consolle a un’estremità e la quale era cinta da un ledwall dai toni di colore di una vividezza tale da far luce anche di giorno.

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Ricardo sfoggia dischi di ogni epoca saggiamente mescolati in un viaggio ardito, ma pur sempre intrigante, come da consuetudine e la folla ne è piacevolmente attratta. Soprattutto con un closing set così, l’attrazione diventa puro, purissimo amore.

Il Main stage era il cuore pulsante del festival. Le performances a cui abbiamo assistito sono stati veri e propri iter musicali, si aveva la percezione che gli artisti fossero davvero in sintonia con l’ambiente circostante e la musica ne ha beneficiato di conseguenza.
Il b2b tra Joy Orbison e Ben Ufo però non ha fatto breccia (piatti, poco in sintonia sui dischi) e così decido di spostarmi nello stage più interessante, il Selectors, nel quale si concentravano gli artisti più ricercati, più lavorati, coloro che sono conosciuti e rispettati nel mondo per la loro immensa conoscenza. Chi meglio di Theo Parrish e Marcellus Pittmann poteva darci lezioni di musica?
Aiutati da un impianto audio a dir poco maestoso (siamo pur sempre in Olanda……..), Theo e Marcellus hanno portato la pista a un livello totalmente “crazy” attraverso una selezione di dischi straordinaria: house, classic house, vocals da brividi…. Una lectio magistralis impressionante tra i meandri delle radici della nostra musica. Anche se i puristi avranno probabilmente storto il naso davanti alle transizioni tra i dischi, non proprio il piatto forte degli artisti americani, che hanno sicuramente impoverito il set dal punto di vista tecnico ma secondo la teoria del “music over skills” devo dire che questi due mi hanno fatto davvero impazzire.

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House e techno in tutte le salse e per tutti i gusti coniugate alla perfezione, equilibrato tra i diversi stages. Ma la coadiuvazione di musiche di diversa natura è il leitmotiv degli anni correnti, ed è il segreto per cui diversi artisti si differenziano dal resto di chi si identifica in un solo credo musicale.

Questa è la sensazione che ho avuto di Daniel Avery b2b Roman Flugel, nel main, due generazioni a confronto ma che hanno creato un continuum musicale pur non essendo sulle stesse lunghezze d’onda.
Eppure questo festival continuava a lasciarmi impietrito davanti alla maestosità dell’organizzazione e della qualità degli stages. Nel Greenhouse, per esempio, gli artisti erano immersi in una vera e propria serra,rigorosamente coperta e abbellita a mo’ di pista da ballo. Impossibile immaginarla vero?
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Pensate ad artisti come Tom Trago, The Black Madonna, The Egyptian Lover e tantissimi altri inseriti in un posto così. Artisti che fanno del loro pane il far muovere il sedere al pubblico, senza fronzoli, seppur mantenendo una selezione killer.

In particolare, The Black Madonna  mi ha piacevolmente sorpreso con un sound fresco di matrice house (forse con qualche hit di troppo) che ha conquistato il pubblico definitivamente. “She stole the show” volendo usare un inglesismo, e credetemi: ogni transizione e ogni disco erano accompagnati da un boato di gioia da parte della pista. Quando si dice che il carisma è una componente importante nel dj-ing, questa signorotta ne è la prova tangibile.

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Il dono dell’ubiquità purtroppo non è ancora nei nostri poteri e i grandi festival ci insegnano che per poter “sopravvivere” la tabella di marcia dettagliato di orari è la prima regola per ogni clubber. Ma qui sarebbe davvero necessario imparare qualche nozione di scomponimento organico: in concomitanza a The Black Madonna le esibizioni negli altri stages erano le più disparate, da DBX live (straordinario live minimal-analogico come non si vedono più ormai) a Lena Willikens, o DJ Nobu, e i padroni di casa di Rush Hour i quali hanno costellato la 3 giorni un po’ in tutti gli stages attraverso i suoi interpreti più rappresentativi come Hunee, Antal, Young Marco.

Piccola menzione la merita lo stage più piccolo, ma forse il più interessante. Red Light District Radio, una radio locale di Amsterdam, ha dato la possibilità a tutti gli artisti del Dekmantel di esibirsi in questo piccolissima struttura posta al centro dell’area ristoro. La diversità ? Ognuno suonava quel che voleva, senza canoni e senza rispetto di orari/idee/dj prima o dopo/musiche.

Questo mi ha portato ad ascoltare grandissimi artisti in forme inedite, soprattutto The Egyptian Lover, che a discapito dei suoi magnifici live ha incantato la (sparuta) folla con una lezione di mixing incredibile: posizionando due vinili identici sui due piatti e lasciandoli sfasati di 4/4, attraverso il fader The Egyptian Lover creava mix incredibili, addirittura con scratch perfetti e pensate un po’, spesso mixando le due tracce riproducendone una all’indietro, come se si facesse REV sui mangianastri di una volta. A mano. Incredibile.

Ma è il main stage che sul lungo vince: tralasciando le prestazioni incolore di Tale of Us (difficile inquadrare i nostri ragazzi nell’ultimo periodo, poco decisi ma soprattutto poco comunicativi nel loro proporre musica) e Koze (un’artista sulla via del tramonto, inconsistente e anche poco rispettoso del pubblico vista la sua abitudine di abbassare e alzare il volume delle tracce in maniera random, inspiegabile), è Dixon che ha conquistato il premio del vincitore del festival. Potrete non essere incantati dalla profondità delle sue tracce, ma il modo in cui le suona, in cui le interpreta, e soprattutto la storia che racconta quest’uomo attraverso la musica è qualcosa di assolutamente straordinario. Ciò che cattura è il senso del momento che ha Dixon: sembra sempre che sappia quale traccia suonare e in quale momento al fine di estrapolare dal pubblico tutte le emozioni possibili. Un dj che oserei definire empatico come una morosa. Una dote di potenza inaudita.

Video di Stefano Vassallo

Se con Dixon si vince facile, un po’ meno lo è con gli artisti meno blasonati. Ma blasone non è sinonimo di bravura. Palms Trax per esempio, un nome alla ribalta negli ultimi 12 mesi, mi ha piacevolmente colpito: dischi house con stesure di bassline più importanti di un classico disco house, forse anche lui con qualche hit un po’ troppo facile per un simile contesto, ma molto preciso e tecnico. Anche il live di Fatima Yamaha, tra Palms Trax e Koze a metà pomeriggio, ha tirato fuori dal pubblico una grande risposta nonostante la difficoltà di esibirsi in un simile orario, ma soprattutto tra due artisti di questo calibro.

Ma se la house non è il tuo pane, tranquillo, nell’UFO stage, o meglio rinominato come lo stage della rudezza, il buon Robert Hood stava bombardando con la sua techno, o meglio , Techno, confermandosi uno degli ultimi ambasciatori di quest’ultima. La parola techno è abbastanza bistrattata al giorno d’oggi, usata troppo e male per definire generi con sfumature prese da altri campi, e vedere vecchi baluardi che mantengono alta la loro bandiera  con onore è davvero confortante. E Robert Hood è uno dei migliori.

Last but not least……. L’uomo del momento, il più desiderato, il più voluto e ammirato. Colui che ha avuto il compito di chiudere questo festival leggendario. Motor City Drum Ensemble.

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Era la prima volta che lo ascoltavo e devo dire che ne sono rimasto piacevolmente colpito. Un dj totalmente fuori dai canoni regolari, ma che suona Disco, funk, house mischiandole egregiamente e riuscendo a trovare un filo logico che si possa definire comunicativo. Addirittura si è spinto su tracce più power, tipo Dance Mania, denotando la sua forte propensione al digging e confermando che al giorno d’oggi non basta scaricare dagli stores digitali 100 tracce e metterle insieme, ma è il background a fare la differenza. E nel caso di MCDE, la ricerca a monte è incredibile, soprattutto perche tange differenti generi musicali.

Le conclusioni? Nessuna classica filippica conclusiva (che tanto mi stanno a cuore) riguardante musica amore cuore sole baci ecc… Un semplice consiglio: prendete un volo per Amsterdam per la prossima edizione all’istante. Che voi ascoltiate techno, house, lirica o jazz questa sarà una delle esperienze più belle della vostra vita. Qui non si balla, qui non si ascolta musica: qui si impara l’arte del sapersi divertire senza fronzoli, e con un unico comune denominatore: la Musica.

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